GROSSETO – Il problema è solo in modo residuale la sparatoria in sé stessa. Molto più preoccupante è il contesto nel quale è maturata. Un morto e un ferito – senza alcun cinismo – sono l’esito probabile di una situazione degenerata che è da tempo sotto gli occhi di tutti. Prima o poi doveva succedere. Oggi sarebbe ipocrita far finta di sorprendersi.
Grosseto è tornata ad essere una grande piazza dello spaccio di stupefacenti, com’era in modo particolare negli anni ’80 e inizio ’90. E come in parte è sempre stata. La propaganda sulla nuova aura di sicurezza che avvolgerebbe la città in virtù di telecamere, pattugliamenti, butteri sulle Mura e amenità varie, si è dissolta in un batter d’occhio la notte di lunedì 23 dicembre, antivigilia di Natale. Mettendo a nudo quanto illusoria e semplicistica sia la ricetta sulla quale quasi tutti si accaniscono, promettendo ai cittadini/elettori di concretizzare il miraggio della sicurezza.
Come da copione, entro poco riprenderanno vigore le polemiche sulla presenza degli stranieri. Che verranno rappresentati in quanto tali come spacciatori dediti alla corruzione dei nostri costumi. Rimovendo, ad esempio, il fatto che pochi mesi fa un altro omicidio avvenuto più o meno con le stesse modalità, ha visto protagonista un follonichese col “pedigree” del perfetto maremmano. Oppure omettendo che i fiumi di cocaina sniffati in provincia, o quelli di eroina iniettata in vena, sono per lo più acquistati da italianissimi consumatori autoctoni. Come se un passaporto invece che un altro facesse davvero la differenza. Come fosse stato diverso se a Roma, in corso Francia, nei giorni scorsi a mettere sotto la propria macchina due ragazzine, diciamo americane, fosse stato un ventenne tunisino.
Le avvisaglie che prima o dopo sarebbe successo qualcosa di grave e di spaventoso, c’erano da tempo. A Grosseto. Le risse fra ragazzini in preda a shottini alcoolici o di coca, gli accoltellamenti in piazza del Sale, i colpi di pistola esplosi in aria in piazza Esperanto dopo un alterco tra un cliente e l’addetto alla sicurezza di un locale notturno, la nascita al Misericordia di due neonati positivi al test della cocaina, lo spaccio evidente in molte zone della città. In provincia. L’omicidio di Gavorrano, poco dopo quello di Follonica. Le tante piazze dello spaccio individuate dalle forze dell’ordine in mezzo alla macchia. I sequestri di droga concentrati nei periodi estivi. Ultima in ordine di tempo, la relazione commissionata dalla Regione alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, che ha definito la Maremma territorio d’elezione per le infiltrazioni mafiose e il riciclo del denaro sporco.
Insomma, a oggi l’unica vera sorpresa è stata l’acquiescenza che c’è stata nei confronti di quest’ultimo clamoroso episodio di violenza. Da parte di chi negli ultimi anni ha sistematicamente sfoggiato maschie dichiarazioni contro lo spaccio. Non di rado soffiando sul fuoco della xenofobia, col pretesto che spesso gli spacciatori erano stranieri.
Questa volta l’imbarazzato silenzio seguito all’omicidio di via della Pace, probabilmente, è conseguenza della distrazione da panettone e prosecco. Oppure il fattaccio non ha suscitato la consueta ondata d’indignazione, perché le vittime non erano “italiane”. Naturalmente a Grosseto. Perché a Follonica, dove una sentenza del Tar ha riaperto la campagna elettorale per il Comune, il candidato del Centrodestra – Massimo di Giacinto – con eroico sprezzo del ridicolo ha subito colto l’occasione per rinfacciare al piddino sindaco uscente il fatto che a Follonica si è susseguita «una lunga serie di gravissimi fatti criminosi che hanno sconvolto la comunità cittadina».
La lettura politicamente interessata dei fattacci di cronaca nera, peraltro, è un cliché tanto consunto e stantio da non meritare nemmeno d’esser esecrato. Piuttosto merita ragionare sul perché continua a pagare e a fare presa sull’opinione pubblica.
Il problema, in questo senso, non sta nel riflesso pavloviano alla violenza figlia dello spaccio. Ma nella mentalità diffusa che gli sta a monte e lo genera. Una visione che autorappresenta in modo surrettizio la nostra realtà come un Eden arcadico, dove i cattivi arrivati dall’esterno importano abitudini che corrompono un ambiente sano. E dove basterebbe un approccio repressivo al problema della droga a risolvere le cose. Da qui la coltivazione, intensiva, dell’illusione che ronde di cittadini, pattugliamenti delle strade, telecamere e scenografiche quanto inefficaci incursioni dei cani antidroga nelle scuole superiori (l’ultima ad Arcidosso e Santa Fiora, venerdì 20 dicembre) siano la risposta per eccellenza nel contrastare lo spaccio di stupefacenti. Quando al massimo sono una subordinata. Oppure la perseveranza nell’errore madornale di equiparare le droghe leggere a quelle pesanti. Quando è oramai appurato che ciò sia fra le cause dell’incoscienza con cui molti giovani e giovanissimi passano dalle une alle altre.
Un approccio che accantona il tema scomodo delle motivazioni che stanno alla base del consumo di sostanze, evidentemente oramai consumo di massa. E quello dell’impatto in termini di costi sociali ed economici delle patologie collegate alla dipendenza dalla droga, essa stessa vera e propria patologia.
Detto in altri termini, la convinzione irrealistica che l’approccio proibizionista porti risultati concreti. Nonostante sin dai tempi del proibizionismo statunitense nei confronti dell’alcool (1919-1933), sia chiaro come il sole che vietare un consumo rendendolo illegale equivale a beneficiare la criminalità organizzata. Alla quale transita la lucrosissima gestione clandestina del mercato delle sostanze proibite, che si organizza con un automatismo stupefacente. È successo negli anni 20 con l’alcool negli Usa, succede oggi con le droghe a livello planetario.
Le conseguenze le vediamo nelle nostre comunità. Com’è avvenuto lo scorso 23 dicembre a Grosseto. Ma fin quando non si farà il passaggio culturale dall’approccio proibizionista a quello della legalizzazione e della riduzione del danno, il mercato della droga rimarrà clandestino e in mano alla criminalità organizzata. E noi continueremo a contare i morti. Magari dividendoli tra italiani e stranieri.