FOLLONICA – “Pronto Irene, posso farti un’ intervista per il Giunco.net?”
La nostra chiacchierata è iniziata semplicemente così, come se fossimo una di fronte all’altra mentre in realtà eravamo a centinaia di km di distanza.
Irene Vella, inviata televisiva per Canale 5, Italia 1 e La 7, giornalista per Donna Moderna e Vanity Fair, scrittrice, dal 2004 un’attività sempre in crescendo, vuoi raccontarci come è stato il tuo primo approccio con questo lavoro?
E’ stato un colpo di fulmine. Me lo ricordo come fosse oggi. Era il 2004, mi ero appena trasferita a Cesenatico, avevo preso un’aspettativa dal mio precedente lavoro in una compagnia telefonica per seguire Luigi – mio marito – nella sua avventura come allenatore del Cesena calcio a 5, avevamo fatto il trapianto da un anno e mezzo, e Gabriele aveva sei mesi.
Mi sono ritrovata catapultata in una regione di cui mi sono innamorata pazzamente, la Romagna, con due figli, un cane e tanto tempo a disposizione. Mi sono detta che era il momento di aprire il cassetto dei sogni, e così un giorno ho preso coraggio ed ho telefonato alla redazione della Voce di Romagna, prendendo appuntamento con il caporedattore Mario Pugliese. Avevo trentaquattro anni e nessun tipo di esperienza giornalistica, ma tanta, tantissima voglia di scrivere e mettermi in gioco. La mia fortuna è stata quella di trovare una persona che ha creduto in me fino al punto da scommetterci.
Quando non avevo materiale per articoli, lui mi mandava in giro, diceva che avevo il fiuto della notizia, mi diceva di annusare la strada, di osservare le persone, che ogni angolo della città aveva una storia da raccontare. Dovevo solo imparare ad ascoltare. Ho imparato tantissimo da lui e dal quotidiano locale.
Non dimenticherò mai la prima intervista importante realizzata, una chiacchierata con la mamma di Marco Pantani, la signora Tonina, persona meravigliosa, che mi aprì le porte di casa sua e di quella di suo figlio, morto da un anno. Ci ritrovammo a parlare e a piangere come ci conoscessimo da sempre, lei mi raccontava di Marco ed io le parlavo di mio cugino Gabriele Mazzetti, morto in un incidente stradale anni prima. È stato proprio in quel momento che ho capito l’importanza di essere empatica, immedesimarmi nel dolore altrui è stato sempre il mio valore aggiunto. Se hai conosciuto la malattia e la sofferenza, se il dolore ti ha attraversato al punto da chiamarlo per nome, non guarderai mai più la vita nello stesso modo.
Nel lavoro del giornalista secondo me i rapporti umani devono avere la precedenza su tutto. Anche sugli scoop. Se per avere una prima pagina, una copertina, devo tradire la fiducia di chi ho intervistato, o calpestare i suoi sentimenti, preferisco rinunciare all’intervista.
Adesso a distanza di quindici anni voglio dirmi brava. Brava per non aver mai mollato, brava per aver creduto in me stessa, brava per essere riuscita a risalire dopo ogni caduta e brava per aver saputo riconoscere le brave persone prima che i bravi colleghi.
E quindi mi sento in dovere di dire grazie. Grazie a tutti quelli che hanno mescolato la loro vita con la mia, anche solo il tempo di una puntata, una trasmissione. Grazie ad ognuno di loro, perché anche i più stronzi mi hanno insegnato qualcosa: a non voler diventare come loro.
Ma sei anche mamma e moglie, come descriveresti per esempio una tua giornata tipo?
Da settembre di quest’anno, per la prima volta, mi ritrovo ferma per un giro. Come quando eravamo bambini e ti mettevano in castigo, o finivi nella “prigione” del Monopoli. Solo che io ho scelto di fermarmi per rimanere accanto a mio marito visto che il “nostro” rene, dopo quasi diciassette anni di onorato servizio, ha cominciato a fare le bizze. Dopo tre ricoveri, per altrettante infezioni bastarde, ho comunicato alla redazione per la quale facevo l’inviata per il Veneto (Mattino5) l’impossibilità di seguire le storie come era giusto che fosse, e da quel momento sono a casa. Sto aspettando di rientrare nel gioco appena si presenterà l’occasione, nel mentre sono tornata al mio antico amore, la scrittura. Ho in cantiere tre libri. E per la legge dei grandi numeri spero che almeno uno veda la luce.
La mia giornata tipo quindi si svolge così. Mi sveglio alle 6,50, preparo la colazione per me e Gabri, poi lo accompagno a scuola. Subito dopo vado nel mio ufficio, la mia pasticceria del cuore armata di pc e cuffie anti rumore, e mi metto a scrivere.
Considero le ragazze (e i ragazzi) di famiglia. Io sono la loro Irene. Mi coccolano, mi portano il macchiatone ad una mia alzata di sopracciglia, sanno che se mi tolgo le cuffie ho anche fame, mi mettono da parte la vegana con la marmellata senza che dica nulla. Come nelle migliori storie d’amore, riescono ad anticipare i miei desideri. Spero un giorno di potergli dedicare un libro come nella serie tv “La verità sul caso Harry Quebert”.
Verso le 12 torno a casa e mi metto a cucinare. Lo gnomo, alias Gabri, torna per pranzo, nel primo pomeriggio dormo un pochino, e poi se il figliol prodigo ha da fare latino o italiano cerco di dare una mano, altrimenti leggo.
Mi spulcio tutti i siti di notizie, faccio una rassegna stampa pomeridiana e, se mi avanza tempo, leggo qualche pagina lasciata a metà e in quadernino scrivo a penne frasi, incipit di libri che sogno, poi mi trasformo in tassista e scarrozzo Gabri nelle sue attività pomeridiane.
Il giovedì torna la mia primogenita Donatella dall’Università di Venezia, dove è riuscita ad entrare nella facoltà di lingue orientali, fa giapponese, ed è festa grande. In pratica inizio a cucinare il lunedì come le nonne, e le surgelo tutto, così che la domenica abbia la valigia piena di robe buone da mangiare. È il mio modo di dirle che la amo e che mi manca tanto, perché in effetti la sua assenza si fa sentire.
Delle due, la più forte è sempre stata lei.
Ti occupi spesso di temi che riguardano il sociale, come ad esempio il bullismo al femminile…
Il libro “Credevo fosse un’amica e invece era una stronza”, pubblicato nel 2013, è stato un caso editoriale ed in pratica si è scritto da solo.
L’ispirazione mi è venuta dopo che mia figlia, all’epoca dei fatti tredicenne, ha subito del bullismo al femminile. La cosa più brutta è stata rimanere ferma, guardarla soffrire senza poterla difendere. Ho cercato di fornirle gli strumenti, poi alla fine ho iniziato a scrivere come terapia, ed è stato un attimo pensare di poter essere utile ad altre adolescenti, e così è stato pubblicato.
Credo che ogni giornalista abbia un suo genere preferito da raccontare, io amo scrivere le storie speciali di persone normali, sicuramente la mia vicenda personale ha influito, ma credo sia un dovere dare voce a chi l’ha persa per strada, a chi ha bisogno, a chi ha subito un’ingiustizia, credo nella penna messa a servizio di chi sta male. È un modo per rendere giustizia a chi magari non c’è più.
Anche sui social scelgo le notizie da commentare con lo stesso metodo. Se mi provoca dolore o incazzatura è la notizia giusta, riesco sempre a capire se un racconto riuscirà a coinvolgere il lettore, se mentre scrivo non riesco a trattenere emozioni e lacrime, di sicuro diventerà virale.
In tanti attaccano i social, ma la verità è che chi legge capisce perfettamente se hai scritto con il cuore o come esercizio di stile, e ti premia scegliendo di seguirti.
Ma scrivi anche di amore.
“Sarai regina e vincerai” è un romanzo autobiografico. E’ stato una terapia, scriverlo mi ha fatto tirare fuori emozioni e situazioni che sul momento avevo nascosto. Forse anche a me stessa.
Mi ricordo le mattine passate a picchiare i tasti del pc in cucina, con i miei cani a farmi compagnia, ogni tanto mio marito entrava a prendere qualcosa e mi trovava in lacrime.
L’amore è stato e sarà sempre il filo conduttore della mia vita, ogni decisione, ogni scelta fatta o subita, è stata presa “per amore”.
Credo che l’affermazione “tornassi indietro rifarei tutto quello che ho fatto” sia la più grande dichiarazione che si possa fare al proprio compagno di vita. Ed io lo rifarei. Anche quando ci sono giorni in cui il dolore si fa palpabile e il lavoro mi manca come l’aria, so che domani sarà per forza un giorno migliore.
Dopotutto, lo diceva anche Vivien Leight in Via col Vento che “Domani è un altro giorno”: chi sono io per contraddirla?
Follonica ti ha visto crescere e spiccare il volo, e so che sei molto legata a questa città…
Follonica per me è vita. È casa. È mare.
Quando ero poco più che adolescente, e abitavo ancora con i miei genitori, se avevo qualche problema o stavo male, prendevo la 500 di papà e arrivavo alla curva dei pini, prima del Villaggio Svizzero, parcheggiavo davanti al mare e fumavo una sigaretta. Quante lacrime ho versato su quegli scogli, quanti tramonti ho visto, quante passeggiate su quella sabbia.
Tutta la mia infanzia e tutta la mia felicità è nascosta in ogni angolo di Follonica. Ci sono le mie amiche del cuore, quelle che cascasse il mondo, cerco di vedere almeno due volte all’anno. Due anni fa sono venute anche a trovarmi qua a Dolo: ecco dovessi descrivere l’amicizia vera, racconterei di loro. Con alcune ho condiviso i banchi della scuola media, con altre mio papà, nel senso che era il loro insegnante di Italiano al commerciale, con tutte condivido la vita.
Dallo scorso anno poi ho deciso di prendere una baracca e passare almeno due settimane come una follonichese. Mi sveglio alle 6, vado a mettere l’ombrellone in prima fila solo per fare dispetto ai vecchietti senesi: quest’estate è stata una guerra per quindici giorni, ma ho sempre vinto io. Poi mi metto le scarpe da ginnastica, vado sul lungomare, e annuso il mare appena sveglio, prima tappa al bar Commercio a prendere cappuccino e giravolte, poi al Peggi a fare incetta di bomboloni, e poi sempre in via Bicocchi più avanti della pasticceria sulla sinistra vado a fare il pieno di schiaccia, no il ciaccino, la schiaccia.
E dopo, carica come un ciuco, vado a dare un bacio alla 167 a mamma e papà, e comincio a distribuire le colazioni comprate.
E la sera ho il divanetto prenotato dal Pagni, Moscow Mule, tramonto e amici della vita, ogni sera qualcuno di diverso. Ho fatto più aperitivi quest’estate che in tutta la vita.
Qua dove abito c’è spesso la nebbia, a volte passano giorni prima che si veda il sole, e a tutti quelli che conosco dico sempre la stessa cosa, dove sono nata io si chiama “golfo del sole” perché anche quando piove c’è sempre il sole a fare da capolino tra le nuvole.
Io e Luigi ce lo siamo promesso, da grandi vogliamo tornare a vivere a Follonica, vogliamo invecchiare sul mare. Ce lo meritiamo.
Sul tuo sito si legge “Vivrei di gelato”: ma come è Irene Vella tra i fornelli in cucina?
Sono una mangiona, golosa di tutto, in particolar modo del dolce. A casa cerco di cucinare tutto io, sono un po’ ripetitiva nell’organizzazione del menù, e sono per i piatti abbondanti. Pieni di sugo e amore. La cucina mi ricorda le mie nonne, ed il loro modo corposo di cucinare.
Non era domenica senza la pasta tirata con il mattarello, e senza il vassoio delle brioche rigorosamente del bar La Pineta di mia zia Licia e di mio zio Francesco. Sarà per questo che sulla mia tavola non possono mancare mai. È un modo per continuare la tradizione ed averli ancora vicino a me.
Avrei voluto chiederle ancora tante altre cose ma il tempo stringe e dobbiamo salutarci. “Grazie Irene per la tua squisita disponibilità e a presto, Follonica ti aspetta”.