GROSSETO – L’insegnante Giovanni Faragli è arrivato terzo assoluto su 101 partecipanti al premio nazionale di “poesia naturalistica” ad Anzio. Faragli era già arrivato primo, lo scorso anno, nel medesimo concorso letterario.
Il libro, una raccolta di poesie, si intitola “Taglio tartaro” ed è dedicato dall’auto al nonno Enzo «che mi ha insegnato a pescare con le penne d’istrice». Il presidente della giuria, Luciano Catella, parla di uno stile contrassegnato da «grande raffinatezza formale e puntigliosa fedeltà al ritmo formale».
Le poesie:
Troppo è stato annodato dentro ciò che ora mi porta a piangere queste lacrime che come perle scendono alla vista di un gioco d’infante e di un cucciolo Abbandonato.
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Freddo, il tuo amore, umido ciocco che fuoco non vuol ricevere. Distratto non riposi il telo sulla legna faticosamente tagliata e affastellata. Gelo e tremori questa mattina mi bloccano qui a ricordare un’infanzia innocente. Lascio alle lacrime questo dolore che finalmente esce fuori, puerile e come un’estrema colpa interminabile.
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Sferza la tramontana sul rosso affannato volto nell’aperta campagna cercando un cane che tornerà, per il freddo e la fame. Questi giorni nulla risparmiano alle ossa ancora dolenti di terreno venale peccato.
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Possa la mente riposare nell’oblio in questa ventosa notte. Sicuro voglio essere sotto queste coperte, sicuro alla mattina destarmi possa. Che grato sia mio figlio di me, incostante, maledetto, assente reietto padre.
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Trema l’aria, scorrono le nubi di invecchiato ferro. Il bambino riposa sogni di pace, protetto e lontano dai nembi di spesso piombo. Osservo la mia vita nei suoi occhi dormienti d’innocente stanchezza. Lascio quello che fu la mia esistenza disgraziata, maledetta, malvoluta.
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Continuare a vivere guardandoti divenire mi rende immortale, come questo azzurro cielo che ancora devi veder brillare sul tuo innocente volto.
Nato sei durante lo strano novembre, mese confuso, di cadenti foglie ed emicranie: incerto destino del mio stesso sangue affrontare dovrai sotto l’inviso segno del tremendo scorpione.
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Da giorni non c’è sole, ma solo legna ardere consumarsi umida nella flebile fiamma che non cresce. Questo fuoco è la vita mia, non cambia intensità, nulla di magico soffia per alimentarlo.
Nauseato cerco di uscire da questo tedio, di fango e fuoco.
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Nere nuvole in movimento penetrano di freddo il mio cuore incapace di dimostrare amore, verso me stesso, verso te. Attendo con rassegnazione che il corpo si abitui a questi nembi di algido tedio che non mi fanno dormire.
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Dorme il sottobosco come un bambino sopra gli umidi aghi di pino. Vacuo d’anime è il giorno, Cammino lento, come gli anni che ho vissuto, è la strada che alla fine del sogno porta. Mugghia intanto il mare, il sale col tempo mangia la rossa casa, erodono le plumbee schiume le immobili pareti. Così siamo, muri crepati, immobili, abbandonati, che fan ogni tanto capolino tra i rami dal mare a riva accatastati. D’estate i fuochi in spiaggia sbarrano il sentiero. Si cambia direzione, senza nessuna soddisfazione, pienando d’amaro l’anima non più quieta.
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Ti stringo a me d’infanti odori, e sento quei vivi colori che sol da bimbo toccai. Piano sussurro al tuo orecchio dolci parole di sonno, esprimi gesti di abbandono e subito nell’oblio cadi. Sei come questa mia solitudine, su questa montagna al risveglio, che pace a breve troverà.
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Sono in un’isola dove mai l’onda s’abbassa e fuggire non si può. Lontane le bianche schiume sembrano chiamarmi a loro placide, ma resto su queste rive, ossessionato dal pensiero di un’evasione impossibile.
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Harpyia
Mi hai strappato un figlio, ho pienato di lacrime la conca delle mie braccia private dell’amore più grande.
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Furioso impeto e lento piangere sono di mia vita eterni emblemi. Perenni ghiacci, massi sul ventre premuti per non respirare libertà, per non spiegare le ormai deboli ali. Nel tempo in cui si crede che tutto possibile sia, gioivo dell’altrui dramma, che mai in fallo colto m’avrebbe. Molto errai credendo sempre nel “mai”.
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Mai voluto essere me, negli altri mi scrutavo dubitando se migliore fossi. Mai di me felice mi cercavo nell’altro, trovandomi nel sentito dire: una grottesca imitazione, un’orda di saggi e barbari che me stesso hanno plasmato irriconoscibile davanti ad un limpido specchio.
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Sei da me lontano, ma non lo sai. Sempre mi sorridi, sempre vedo un dentino nuovo.
Che male la bocca la sera! Che male la vita lontano da te. Cosa sarò per te se saprai? Che male la bocca la sera, ma c’è mamma e l’odore suo che tutto nell’oblio rifugge. Son già da te lontano. Che male la vita al crepuscolo, come un nuovo dentino che spunta, che male la bocca la sera, che male la vita lontano da te.
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La sera si fanno sentire dell’anima i dolori. Esco per gli orti di questo borgo che gaio mi ospita. Vedo i tuoi occhi innocenti dal tartaro taglio. Una lacrima dai miei sfugge, perché toccarti non posso. Più il tempo passa più grossa si fa la paura che tu non mi senta tuo.
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Odo della Peschiera le oche starnazzare e sotto le trote leggiadre scivolare a pelo d’acqua. Non è questa mezzaluna ad illuminare il limpido specchio, sei tu, con gli occhi tuoi che rischiari la vista mia, vita mia.
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Sei nata, stella mia, ora dispersa in terra. Mai provato questo sentire, mai conosciuto questo sussulto del cuore. Svelo il ritratto tuo dove rivedo i miei balocchi di bimbo. Sono nel limbo dell’attesa eterna di un giudizio.
Suona ora la campana dei morti sentimenti, e a scandirne di nuovi la nascita.
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Sigarette spente son simboli del passato nostro: Ci piaceva ascoltarci, il mondo si cambiava sol la notte, vivendo un sogno pellegrino che sarebbe finito nelle mani di tutti, come il giallo di una cicca che mal spenta e umida tinge.
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Disincanto
Gioca amore, gioca. Guardati intorno, non avanzare, scruta. Svelerai il cattivo che per te ancor non esiste, però puntuale arriverà, con tre bei rintocchi busserà rivolendo quei balocchi insieme a questi versi d’amore. Non piangere, nonna ha ragione: hai una vita per versarle, è già vicina la stagione. Ridi delle cose di senso prive. Buffo sarà, e teco giocando di gioia piangerò
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Scolpirò per te bellissime parole, note dolcissime vibrerò, pensando sempre ai tuoi occhi dal taglio strano. I’amore è un urlo, dal cuor esce, plana come un segreto pianto che si ha dentro da tanto. Esplode il tuo sorriso di speranza pieno. Passa la bufera dei sentimenti, lassa è l’anima di lacrime versare. Ti rivedrò più bello che mai, piccolo uomo che a tutti felice sorride, e il capino, bisognoso di carezze nel buio della tempesta, mi porgi sul petto. Esistere è questo, cercare caldi piedi tra le gelide coltri della vita, sotto le quali sempre mi troverai.