GROSSETO – Era il 5 novembre del ’66. Il giorno prima le acque dell’Ombrone ruppero gli argini ed esondarono, allagando le campagne e causando ingenti danni nel capoluogo maremmano. Era il giorno dopo l’alluvione e Matteo D’Angelo, studente ventenne al quinto anno di ragioneria, era sul terrazzo di casa, una costruzione antica in via Amendola. “Matteo osservava i gorghi limacciosi ed il vano del portone coperto nonostante l’altezza, e si sentiva prendere da un sentimento che un filosofo avrebbe definito ‘sublime’, ma che lui percepiva semplicemente come una sorta di esaltazione” si legge nel libro “I giorni dell’alluvione”, che dedica alcune pagine all”impresa’ di Matteo, che vi riportiamo di seguito.
Dopo una notte del genere, con gli aiuti che non arrivavano, si respirava aria di tragedia. Matteo salì in soffitta e rovistò finché non saltò fuori quello che cercava: un robusto canotto di un paio di metri che usava al mare nelle giornate serene. Suo padre lo vide scendere con quel fagotto, la pompa e una corda attorcigliata alla pagaia.
“Che intenzioni avresti?” domandò.
Matteo accennò alla strada con un movimento della testa. Il padre fece una smorfia un po’ scettica: “Ti aiuto a calarlo” disse. Gonfiarono la piccola imbarcazione e la legarono con la fune ad una delle estremità, poi la fecero scivolare nel giardino lungo il muro.
“Ci sarà gente che ha bisogno” disse Matteo prima di scendere aggrappato alla fune. Suo padre dall’alto gli lanciò la pagaia. Sua madre era disperata.
“Lascia che il ragazzo ci provi, se se la sente” la tranquillizzò il marito.
Con un paio di colpi esperti Matteo infilò il cancello del giardino ed uscì sulla strada sommersa. Il turbinio era fortissimo e pioveva. Da una parte si scorgeva un camion abbandonato che spuntava appena dall’acqua. Proprio lì, ventiquattr’ore prima, Matteo aveva salvato il povero Ivan, un ragazzotto meno acuto degli altri che con la piena alle ascelle se ne andava gironzolando confuso e stupito.
Ci sapeva fare, Matteo: seduto sul bordo del canotto virava tra i gorghi con un’agilità sorprendente. Fece una breve ricognizione e si diresse verso la porta della città.
Arrivato sotto l’arco, si rese conto che poco oltre s’era formata una minuscola spiaggetta, dove approdò. Sugli spalti delle mura, una fila di gente con gli ombrelli guardava la piena. Molti furono gli stessi che, nei giorni a seguire, i giornali diffidarono dal vagabondare per le zone sinistrate intralciando i lavori. Erano quelli che l’avevano scampata e che conservarono le case all’asciutto.
Ad accoglierlo, a riva, Matteo trovò i vigili urbani, frustrati ed impotenti di fronte alla disgrazia. Lo squadrarono tutti come avesse tre teste.
“Animo! – disse Matteo – Non si può stare con le mani in mano”.
I quattro fecero la faccia di chi la sa lunga, espressione frequentissima quando le cose da affrontare sono troppo grosse.
Aveva perlustrato il quartiere, Matteo. S’era annotato in mente una decina di richieste più impellenti delle famiglie: c’era chi aveva bisogno di latte per i bambini, chi di medicinali, chi pregava con le lacrime agli occhi per un pacchetto di sigarette giurando che a verrebbe assaltato il vicino per rapinargliele se non le aveva entro mezz’ora. Il ragazzo cominciò a dare ordini a destra e a manca e fu abbastanza convincente. Un quarto d’ora dopo, il canotto era pieno di roba da mangiare, farmaci, bottiglie d’acqua minerale e tabacchi.
Sotto la pioggia leggera ripartì, scaricò ogni cosa alle persone che tendevano le mani ansiose e virò ancora verso la porta.
Un certo tipo di coraggio si ha a vent’anni e poi scompare. C’è chi la chiama sventatezza, ma sono i soliti vecchi invidiosi. Matteo pagaiava con spallate decise, danzando tra le onde come una ballerina spigliata. Cominciava a conoscere i bisogni della zona e appena lo vedevano passare tutti gridavano perché si avvicinasse. Lui rispondeva con calma, dicendo che avrebbe pensato a loro uno per volta.
Rientrando alla porta indicò di nuovo quel che serviva ai vigili e alla piccola folla che si era radunata. In quel momento vide arrivare il macellaio, che aveva la bottega nella piazzetta. Era carico di carne. La sbatté sul canotto e si pulì al grembiule dal sangue: “Tanto sarebbe andata a male lo stesso – disse -.E’ da ieri che il frigo non va”.
Il ragazzo assestò i tranci di manzo nell’incavo della chiglia e ripartì. Un entusiasmo frenetico gli dava la forza di spingere sulla pagaia e fare lo slalom tra i mulinelli sembrava un gioco. Continuò così per un pezzo, con la gente che lo ringraziava commossa dalle case quando consegnava una braciola di maiale o una confezione di aspirina. Qualcuno cercò addirittura di offrirgli soldi, ma lui rifiutò sdegnato.
Era tanto fiero di ciò che stava facendo che non si preoccupava dei rischi e scherzava con l’acqua azzardandosi addirittura e cercare il divertimento nei punti difficili, a portare aiuto nei tratti più turbinosi. In quell’andirivieni trovò il tempo di tornare persino a casa propria e diede a sua madre qualcosa per sfamarsi, se la piena durava. Il padre volle accompagnarlo in uno dei tanti viaggi e si procurò un bel tocco di carne da brodo; purtroppo, però, faceva il direttore dell’Ufficio Imposte e non era un gran lupo di mare, così in un attimo di particolare oscillazione dovette pensare a reggersi e la carne finì in pasto al fiume che la divorò con gusto. La salutarono con gli occhi ed entrambi deglutirono pensando al bel sapore che avrebbe avuto.
Matteo riprese da solo il suo impegno di corriere e nonostante la delusione per la carne si trovava sempre più a suo agio tra le onde. Ma l’acqua, come sostiene chi la pratica, non si conosce mai abbastanza. Capitava che a quel tempo il terrapieno della ferrovia non avesse tanti sottopassaggi quanti ne ha oggi ed i due o tre che esistevano, pressati dalla massa del fiume, si erano trasformati in enormi tombini che risucchiavano ininterrottamente.
Matteo non se l’aspettava, e senza alcun timore si diresse in piazza La Marmora col latte in polvere per un pargolo di poche settimane. Quando entrò nel raggio d’azione del risucchio era troppo tardi perché la pagaia potesse bastare a trarsi d’impaccio. Vide la prua girarsi verso il sottopassaggio e il canotto si inclinò pericolosamente. La lotteria della morte ebbe molti candidati in quel periodo, ma per fortuna solo il vecchio Santi vinse il premio. Matteo scorse un palo abbastanza vicino, prese la corda con la quale lui e suo padre avevano calato il canotto e gliela passò intorno facendo forza sulla pagaia per raggiungerlo. Declinò in questo modo gentilmente l’invito a pranzo della Nera Signora. Superato lo sgomento iniziale si rese conto che stava tremando; allora rimise il canotto nella direzione giusta e con un bello sforzo di spalle si portò lontano.
Nel palazzo di fronte a casa sua, in mezzo all’acqua che rombava e ai giardini deva stati, una crepa irregolare s’era aperta sulla facciata. Nessuno ricordava se ci fosse da prima o se l’avesse prodotta il fiume. Gli abitanti avevano tremato, imprecato, discusso. Alla fine era stato deciso di fissare dei vetrini da microscopio alla fessura; se si fossero spezzati voleva dire che il muro si sta va muovendo.
Matteo fu chiamato proprio da quel palazzo mentre passava col solito carico di viveri: “Ehi tu, del canotto!” gli urlò un tizio corpulento. Matteo si avvicinò. Il tipo grosso gli spiegò in poche parole biascicate che c’era una donna incinta con un bambino piccolo, là dentro. Stava male ed aveva bisogno che la portassero a terra. “Ci penso io” disse Matteo. Il corridoio dell’appartamento era al livello della superficie dell’acqua. Il ragazzo percorse quei pochi metri lentamente, destreggiandosi tra i mobili galleggianti. In una camera trovò la donna che aveva un pancione enorme e un bambino piccolo con due occhi da stringere il cuore, grandi e sgranati davanti alla disgrazia. Matteo ebbe un attimo di dubbio. Caricare la donna e il ragazzino poteva essere pericoloso. Se si fossero spaventati? Se si fossero mossi troppo? Sudò freddo in quel frangente. I due se ne stavano speranzosi sul grande letto matrimoniale che li proteggeva dall’acqua. “Un movimento brusco e siamo tutti fregati – pensò Matteo -. Forza signora,”disse porgendole la mano salga su”. La donna montò ringraziandolo con un filo di voce e chiamò a sé il figlio che mise dentro i piedini senza scarpe e si rannicchiò in fondo con quegli occhioni spalancati che fa cevano venire un groppo allo stomaco.
Matteo diresse il canotto lungo il corridoio con la massima cautela ed una volta fuori scelse i percorsi meno accidentati, si teneva vicino agli alberi perché ci fosse sempre un punto saldo al quale aggrapparsi in caso di necessità.
Finalmente sbarcò sulla spiaggetta sotto l’arco e la donna scese reggendosi lo scialle, incurvata dal peso della pancia; si trascinò dietro il bimbo che la seguì trotterellando. Qualcuno dei presenti accennò un applauso, ma Matteo scosse la testa senza guardar li e caricò di nuovo il canotto con quello che i vigili avevano preparato.
“Fra i tanti ricordi il più vivo è il seguente: l’acqua nella zona di via Ximenes, via Gramsci e via Amendola, dove abitavo, era molto alta e turbinosa. In via Amendola si era sparsa la voce che uno dei palazzetti stesse crollando – ci racconta, oggi, Matteo D’Angelo, 53 anni dopo l’accaduto -. Vi risiedeva una donna incinta di sette mesi ed il proprio figlioletto di 4 anni. Il terrore aveva preso i familiari e chi abitava il palazzo. Nel fare i tanti giri con un mio canottino di due metri, ma abbastanza robusto, mi fu chiesto di andare a prelevare questa puerpera. Mi sono messo in moto, ho attraversato via Amendola, mi sono incuneato in uno stretto corridoio del palazzo fino ad arrivare sul pianerottolo allagato della casa, così ho potuto far salire questa donna che, confesso, si è dimostrata più coraggiosa di me nell’affrontare la pericolosa situazione. Stavo per partire quando il bimbetto si è messo a piangere perché non voleva lasciare la mamma. Alla richiesta accorata della mamma, ho imbarcato anche lui. Eravamo in tre su quel piccolo canotto con la mia grande preoccupazione che un movimento brusco di uno dei due potesse far rivoltare il canotto: tutto è andato bene, uscito dal corridoi ed affrontata l’acqua turbinosa che sotto nascondeva auto, animali morti, tronchi, presse di paglia e tanto altro, sono riuscito a portare mamma e figliolo in salvo”.
Matteo è stato uno degli eroi dell’alluvione di Grosseto, uno di quelli che, con prontezza e forse un po’ di sfrontatezza, ha accantonato la paura per aiutare gli altri, per rendersi utile alla comunità.