GROSSETO – Nonostante il consumo di sostanze stupefacenti sia in crescita costante, nel discorso pubblico rimane un tabù inviolabile affrontare con spirito laico il tema “droga”. Il conformismo sulla questione è a tenuta stagna. E trasversale agli schieramenti politici. Tutti allineati e coperti. Condizionati dai mantra del proibizionismo e della via repressiva al contrasto alla droga.
La Maremma, storicamente terra di consumi delle sostanze psicotrope, non fa eccezione. Se n’è accorto a proprie spese il povero consigliere comunale piddino di Orbetello, Luca Aldi, crocifisso come un cristo di provincia per essersi azzardato a sostenere l’opinione antiproibizionista espressa recentemente da Roberto Saviano. Una levata di scudi che va al di là della contrapposizione politica tradizionale, spesso dai connotati farseschi. Contro il povero Aldi, infatti, si sono prontamente scagliati gli esponenti provinciali di Lega, Fdi e Fi, con le consuete dichiarazioni bellicose e maschie nei confronti degli spacciatori – peraltro assenti nel dibattito – all’insegna del protocollare approccio proibizionista duro e puro.
Ad allarmare, tuttavia, non sono gli stereotipi politici, ma l’accusa davvero patetica rivolta ad Aldi di offendere con le sue dichiarazioni tutti coloro che lottano contro la diffusione della droga, dalle forze dell’ordine agli operatori sanitari. E la esilarante, non fosse cosa seria, richiesta delle sue dimissioni. Come se l’unica narrazione pubblica legittima fosse quella proibizionista, di cui sono ovviamente custodi i sacerdoti della destra. Di peggio c’è stato solo il silenzio imbarazzato e reticente, neghittoso, del Partito democratico. Che manco ha speso una parola a difendere l’ovvietà della libertà d’opinione. Cosa che ha costretto Aldi a precisare (sbagliando) di aver scritto su facebook a titolo personale, e non come esponente politico.
Considerato il desolante quadro d’insieme, bisognerà pur dire che siamo di fronte a un conformismo pericoloso e improduttivo, che ha fra i suoi cascami più deleteri anche quello dell’autocensura. Per quanto il livello del dibattito abbia le stimmate di una manifestazione patologica, patetica e un po’ provinciale.
Rovesciando l’approccio “ortodosso”, oggettivamente non c’è che da prendere atto del fallimento totale del proibizionismo per contrastare diffusione e abuso delle sostanze stupefacenti. Peraltro talmente in rapida evoluzione, da non riuscire in diversi casi né a classificarle, né a tracciarle nell’organismo umano.
Non c’è solo la presa d’atto del fatto, come giustamente sottolinea Saviano, che a livello globale la lotta alle organizzazioni criminali ingrassate dal narcotraffico vede abbondantemente soccombenti le “forze del bene”. Sopraffatte e impegnate a dilapidare in modo inefficace cospicue risorse economiche che non producono risultati, e che potrebbero essere destinate ad azioni più efficaci. Ma anche la constatazione che a livello locale, dove apparentemente tutto sarebbe più semplice, l’approccio repressivo basato su ronde delle forze dell’ordine, parate di cani antidroga nelle scuole e diffusione a macchia d’olio delle telecamere, non hanno prodotto risultati accettabili rispetto agli sforzi profusi. Basta guardare alla cronaca delle ultime settimane: un consumatore italiano che ammazza uno spacciatore marocchino nelle campagne di Bagno di Gavorrano. Il rinvenimento di piazze dello spaccio nei boschi di Capalbio, Massa Marittima e Follonica (600 dosi). I sequestri di piantagioni di marjuana. Ultima in ordine di tempo l’inchiesta del Tirreno sulla prosecuzione dello spaccio sulle Mura medicee alla luce dei nuovi lampioni a Led. In attesa delle nuove ronde dei Vigili urbani, che al massimo sposteranno in altra sede la piazza dello spaccio. Poi passa l’estate, in cui il commercio di stupefacenti raggiunge il proprio culmine, e tutto si cheta. Fino al prossimo episodio di cronaca, e a seguire i soliti pleonastici comunicati stampa d’indignazione celodurista un tanto al chilo.
Nell’autoreferenziale lotta alla droga celebrata su social e media tradizionali, salvo sparuti, isolati ed eroici portatori di buon senso, nessuno che interpelli e ascolti gli operatori del settore. Quelli che per mestiere stanno a contatto con la tossicodipendenza vera. Quella quotidiana che non fa audience, e che ha mille sfaccettature.
Nella sola zona sociosanitaria grossetana, ad esempio, lo scorso anno il “Servizio dipendenze” (SerD ndr) della Asl Toscana sudest ha preso in carico 650 persone (1.021 i contatti), di cui 464 tossicodipendenti. Quest’anno, invece, al 30 giugno, delle 581 persone seguite dal SerD – su 850 contatti – quelle che hanno dipendenza da droghe erano già 420.Peraltro, secondo le stime più prudenti, i consumatori di sostanze psicotrope sono da dieci a venti volte quelli che si rivolgono o sono segnalati ai SerD. Ipotizzando 1.000 persone seguite dai servizi in tutta la provincia di Grosseto, nella migliore delle ipotesi sono 10.000 quelle che consumano più o meno regolarmente droghe di varia natura. 20.000 nella peggiore. Al netto dei consumi estivi, e delle dipendenze da tabacco e alcool. Rispettivamente la prima e la terza causa di morte in Italia. Con la droga che sta nella parte bassa delle prime dieci posizioni in classifica.
Stando all’indagine Ipsad (Italian project survey for alcohol and drug, 2017) – coordinata dall’Istituto di fisiologia clinica del Cnr di Pisa – in Italia un terzo della popolazione tra i 15 e i 64 anni ha assunto almeno una sostanza psicoattiva illegale nel corso della propria vita. Certo, non sono tutti tossicodipendenti – quelli “ufficiali” (sottostimati) seguiti dai SerD sono 140.000 (16.200 in Toscana) – ma il dato serve a dare un’idea della dimensione del problema.
In Toscana, invece, l’Agenzia regionale di sanità ha concluso che nel 2018 uno studente su tre ha assunto almeno una sostanza nella vita, e tre ragazzi su dieci nell’ultimo anno.
Saltando per sommi capi a Grosseto, poi, si scoprono cose interessanti. Il 53,3% degli utenti del SerD ha più di 40 anni, ma dal 2012 ad oggi sono sempre aumentate le coorti dei giovani consumatori. Che per due terzi socializzano la prima sostanza (nel 93% dei casi cannabinoidi) entro i 15 anni d’età.
Circa il 70% degli utenti trattati, inoltre, ha dichiarato l’eroina come sostanza primaria. La cui percentuale è in costante, lenta riduzione (era pari all’88,5% nel 1994). Mentre sono in parallelo lento aumento coloro che abusano di cocaina (per lo più come sostanza secondaria): dall’1,9% del 94 al 16% del 2018.
A fronte di tutto questo – solo una minima parte delle informazioni scientifiche a disposizione – c’è davvero qualcuno che può ergersi a giudice inappellabile di quale sia o meno la strada per arginare il consumo di droghe? E soprattutto, su cosa poggiano le fragili certezze degli aggressivi proibizionisti, quando dileggiano e giudicano i fautori dell’antiproibizionismo? Se non su un approccio ideologizzato, moralisteggiante e soprattutto autoreferenziale?
Depenalizzazione, legalizzazione e liberalizzazione del consumo di sostanze. Cicli educativi e informativi sui rischi inerenti il consumo di droghe, continuativi ed episodici, all’interno delle scuole, invece dei blitz coi cani antidroga. Strategia della riduzione del danno. Politiche fiscali e molto altro ancora, andrebbero presi in considerazione con laico distacco. Nella consapevolezza che le narcomafie con l’approccio classico sono imbattibili, e che bisogna valutare le strategie di contrasto in base all’efficacia reale. Non alle ubbie politiche. Sarebbe già un bel passo avanti.