GROSSETO – Torquato Fusi, partigiano e mio antico compagno, dopo la Liberazione fu segretario della Federazione del Pci di Grosseto, poi senatore delle Repubblica per due Legislature, dal 1968 al 1976. Fu infine presidente provinciale dell’Anpi per oltre quindici anni. Sposato con Hera, tanti anni fa mi raccontò la storia del loro amore e del loro matrimonio, dopo un invito a pranzo nella modesta casa di Massa Marittima, davanti a una tazzina di caffè e con i ragazzini che giocavano in corridoio.
Negli ultimi anni di guerra Torquato aveva poco più di venti anni: contadino e figlio di mezzadri, renitente alla leva, si era buttato nei boschi intorno al suo podere per fare la guerra ai tedeschi e ai fascisti. C’era la Brigata Garibaldi, da quelle parti. E Torquato, comunista, diventò garibaldino, con il fazzoletto rosso, le scarpe scalcagnate, l’entusiasmo ostinato di chi non si arrende. Armi poche, i più fortunati con un fucile da caccia, una bandoliera di cartucce, una vecchia pistola rimediata da qualche parte.
Così era a mani nude, quando i fascisti di Massa Marittima lo fermarono nei pressi della fattoria di Perolla, e lo trascinarono alla casa del fattore insieme a due compagni giovani come lui. I prigionieri furono rinchiusi nell’aula a piano terra della scuola rurale, l’ unica stanza – in fattoria – che avesse le inferriate alla finestra. Intanto, tutti sapevano, in quella piccola comunità: la finestra della scuola dava sulla piazzetta, e le ragazze della fattoria passavano insieme lì davanti, correndo, indugiando, per dare un’occhiata ai “partigiani.”
Nel gruppo, Hera aveva appena venti anni, primogenita di una famiglia sfollata da Orbetello verso nord per sfuggire ai bombardamenti. Il padre aveva trovato lavoro come ragioniere alla fattoria. I due ragazzi si videro e si parlarono. Un bel giovane con i baffetti ben curati, come andava allora di moda, e con i capelli scompigliati. Una ragazza mora, timida, occhi neri, un vestitino estivo cucito dalla madre.
Si innamorò Hera, quando vide Torquato? E si innamorò Torquato, quando vide Hera? Certo, non era quello il tempo di pensare all’amore. Alla morte forse. Ma la morte – per quei casi del destino – passò oltre la scuolina di campagna trasformata in prigione. Successe che sulla strada di Massa Marittima i partigiani avevano catturato e preso in ostaggio un pezzo grosso delle camice nere. Lo tenevano, e chiesero in cambio della sua vita la libertà per quei tre ragazzi ostaggi dei fascisti. “Che poi, non erano nemmeno partigiani, non avevano le armi, erano solo contadini ignoranti che non c’entravano niente”.
Così lo scambio si fece, le ragazze di Perolla sospirarono di sollievo, e Torquato tornò libero. Ma era ormai vicina la Liberazione di tutti, e ci fu tempo per festeggiare sulla piazza di Massa Marittima, abbracciati ai soldati americani e alle ragazze che avevano tremato per i loro innamorati alla macchia.
Ci fu anche tempo, con la pace, per un corteggiamento contadino. Torquato si presentò alla famiglia di lei, Hera lo aspettava la sera a “veglia” con i genitori e le sorelline più piccole. Il ragazzo faceva in bicicletta i sei chilometri di campagna tra il suo podere e la fattoria, e quando veniva l’ora di tornare a casa era a volte così stanco che sulle discese si addormentava ai pedali e si risvegliava dolorante tra i rovi delle fosse lungo il sentiero.
Ci fu un tempo anche per il matrimonio. In chiesa, perché la famiglia di Hera non volle sapere ragioni: “puoi essere anche comunista, ma nostra figlia non te la diamo se non vi sposate in chiesa.” Lei sorridente in abito bianco, lui magro come un’acciuga, con i capelli imbrillantinati e i baffetti. Non hanno un soldo, ma hanno coraggio da vendere: o incoscienza, che è lo stesso. Vivranno insieme, l’hanno promesso al prete e al mondo, e in due anni metteranno al mondo due figli maschi.
E ci fu un tempo anche per la vita insieme. Quando Hera fu ricoverata all’ospedale di Grosseto e Torquato andava a trovarla, mia moglie Liliana, che era infermiera, mi disse che si guardavano con dolcezza: “si vede che si vogliono bene.”
Questo per dire che la nostra Resistenza fu anche una storia d’amore, e non solo di guerra. La guerra era il paesaggio, l’amore era la sostanza. Di armi del resto ne avevamo poche, ma l’amore – come quello di Hera e Torquato, e di tanti altri – non ci mancava.