GROSSETO – Una fra le tante eredità indigeste di questi anni di fobie collettive, saranno le decine di migliaia di telecamere disseminate in giro per le città con l’obiettivo di garantire la «nostra sicurezza». Poco rileva nell’opinione pubblica distratta ma in preda alla sindrome dell’assedio, che l’esplosione della videosorveglianza di massa avvenga nel momento storico in cui si raggiungono i picchi di riduzione di crimini violenti come omicidi, rapine e furti d’auto (dati del ministero dell’Interno, rigorosamente non “komunisti”). E che questo, da anni, vada di pari passo con l’aumento dell’immigrazione. Nella compiaciuta soddisfazione di produttori e installatori di sistemi di telecontrollo, e con il gaudio dei Comuni che fanno a gara ad annunciare reti sempre più invadenti di telecamere. Perché la sicurezza prima di tutto. Naturalmente per i cittadini.
Ultimo portato di questa nuova ossessione all’insegna del mai troppo abusato stereotipo del “grande fratello” orwelliano, è la dote di 10 milioni nel 2019 per installare sistemi di videosorveglianza a circuito chiuso nelle aule di asili, materne, doposcuola e centri gioco, nelle strutture socio-sanitarie e socio-assistenziali per anziani e disabili, che arriva con un emendamento bipartisan allo stupefacente decreto “sblocca cantieri”. Tesoretto securitario al quale si aggiungono trenta milioni di euro per il 2020, e altrettanti per il 2021.
Tralasciamo, che sarebbe un discorso a sé stante, il tema generale della sicurezza nelle città. Ché già oggi è chiara la tendenza del degrado urbano a migrare un centimetro più in là del raggio di copertura delle ultime telecamere installate. E puntiamo l’occhio di bue (il faro seguipersone dei concerti) solo sulle telecamere che colonizzeranno asili, materne, case di riposo e quant’altro in giro per la provincia di Grosseto. C’è davvero qualcuno disposto a credere che queste impediranno, o preverranno, violenze su bambini, persone anziane o disabili?
Sì dirà: ci fossero state le telecamere, nel 2016 all’asilo “Albero azzurro” di via Caravaggio a Grosseto non ci sarebbero state le violenze sui bambini. La verità è che non è proprio detto. Perché se sai che sul posto di lavoro ci sono telecamere, e c’è l’intenzione di fare del male a dei bambini, di conseguenza le forme di violenza esercitate si adeguano e sfuggono alla telecamera. Vero è, invece, che una volta che esista un fondato sospetto, la telecamera (nascosta, e quindi sconosciuta a chi eserciti la violenza) può essere un alleato determinante nel portare alla luce un reato contro la persona fragile. Sarebbe tutto così ovvio, si ragionasse con un po’ più di serenità e razionalità.
Ma c’è molto di peggio dell’eccesso di zelo, e dell’emotività irrazionale elevata a bussola dei comportamenti sociali. In particolare la cosa pericolosa è che la legittimazione del sospetto come chiave di lettura di ogni comportamento umano, porta inevitabilmente al controllo delle persone. Al codinismo istituzionalizzato. Alla violazione dell’intimità e della riservatezza. Ché privacy è inglesismo davvero troppo abusato.
Tutti tracciati, tutti spiati. Non è un’ipotesi astratta, ma una realtà oramai diffusa. Della quale si stanno cominciando a rendere conto in molti in giro per il mondo, iniziando a protestare e a pretendere di limitare l’invadenza delle telecamere allo stretto indispensabile e ai reali motivi di sicurezza. Un’onda crescente che si oppone al ”grande fratello” globalizzato che minaccia la libertà e l’autodeterminazione delle persone. Il fatto che il Belpaese – come dimostra l’emendamento bipartisan – sia in retroguardia su questo tema, dovrebbe essere un motivo serio di preoccupazione.
D’altra parte la videocamera non è solo l’alibi perfetto al controllo delle persone – magari da parte della polizia che agisce su mandato politico? – ma anche per liberare le coscienze dei singoli da qualunque senso di responsabilità e del dovere rispetto a quel che fanno nel proprio luogo di lavoro.
Dove sta in tutta questa ossessiva ricerca del colpevole, o del comportamento colposo, l’etica della responsabilità? Ovverosia, non avrà per caso ragione Daniele Novara, pedagogista, fondatore e direttore del CPP-Centro PsicoPedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti, che ha detto a Vita.it (il mensile del Terzo settore): «installare una telecamera vuol dire non fidarsi del personale reclutato. D’altronde se lo paghi mille euro al mese qualche dubbio ti può venire…».
«Il messaggio è il medium» (mezzo), diceva Marshall MacLuhan, invitando a non soffermarsi sui media in base ai contenuti che veicolano, ma in base ai criteri strutturali con cui organizzano la comunicazione. Quindi se utilizzi ovunque le telecamere – negli asili, nelle scuole materne, negli ospedali, nelle strutture residenziali per i disabili ecc – stai dicendo implicitamente a tutti che quelli sono luoghi insicuri. Dove è bene comunque guardarsi le spalle.
Il problema nelle strutture socio educative e socio assistenziali, in definitiva, non è avere un sistema di telesorveglianza interno. Ma quello di come viene selezionato il personale, di quanto questo viene pagato, di quanto partecipa o meno a corsi di aggiornamento professionale, del sistema interno di controllo della qualità, delle procedure d’appalto dei servizi educativi o socio assistenziali, dei controlli che fa la Pubblica amministrazione una volta individuato il gestore. Solo in fondo, molto in fondo, e solo residualmente, esiste un problema di organizzazione della videosorveglianza. Che è di gran lunga più efficace per monitorare persone fragili con salute a rischio, rispetto alla prevenzione o individuazione di violenze.
È altrettanto evidente che in natura esistono gli psicopatici, così come abusi e maltrattamenti. Cose che succedono in ogni parte del mondo. Peraltro, come ha sintetizzato efficacemente lo stesso Daniele Novara a Vita.it, l’Italia è «il primo Paese al mondo a pensare di risolvere il problema con le telecamere: o siamo i più furbi o siamo i più cretini. Per di più io non ho mai visto fare una legge su un settore specifico senza consultare nessun operatore del settore. Siamo tutti contrari, ci sarà motivo…».
Insomma, mutatis mutandis, è un po’ come curare i sintomi e non la malattia. O, se volete, un po’ come pensare di aggredire il debito pubblico con i “minibot”. Ecco.