«Grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è eccellente», diceva Mao Tse-tung a significare che il contesto era favorevole alla rivoluzione. Parafrasando il grande timoniere, un po’ lo stato dell’arte nel comparto agroalimentare in Maremma. O forse sarebbe meglio dire nel quadro del citatissimo, e sfuggente, Distretto agroalimentare della Toscana sud. Entità di cui si sente dire un gran bene, le cui sorti pare siano magnifiche e progressive, ma della quale nessuno ha ancora visto i benefici. Ancorché se ne discetti oramai da anni.
Andando per gradi. C’è unanimità di conensi sull’idea di costruire un pezzo dello sviluppo economico della Maremma puntando sulle produzioni agroalimentari. E un po’ tutti s’affannano a enfatizzare un modello del quale però ad oggi ci sono solo contorni molto sfumati. Con qualche certezza e una marea di dubbi sul da farsi, esemplificata dall’alquanto caotica sovrapposizione d’iniziative che si stenta a ricondurre ad un disegno organico. Ispirato da un’unica cabina di regia.
Una certezza, ad esempio, è il mondo del vino. I produttori vitivinicoli sono quelli più avanti nel settore agroalimentare. Più strutturati e organizzati come comparto. Da un paio di decenni – in provincia di Grosseto – avvezzi alla competizione e a loro agio nelle dinamiche dell’export. Attrezzati con certificazioni e competenze per muoversi nella giungla della Gdo e sui mercati internazionali. In questo senso l’arrivo negli anni ’90 in Maremma di grandi investitori è stato un toccasana. Il neopresidente del Consorzio di tutela dei vini della Maremma Toscana Doc, Francesco Mazzei, insediatosi pochi mesi fa, è stato molto chiaro, proponendo subito una santa alleanza con gli altri consorzi di tutela – in primis Morellino e Montecucco – per organizzare la provincia di Grosseto come un unico player della prestigiosa vitivinicoltura toscana. Insomma, la logica del distretto.
Molto più indietro, invece, le altre componenti del comparto agroalimentare, che pure nella nostra realtà vantano fior fiore di aziende, che però raramente costituiscono una filiera strutturata. Il settore lattiero caseario, ad esempio, potrebbe fare faville se facesse sistema e cogliesse le opportunità dell’export. Che garantisce prezzi più alti e maggior valore aggiunto. Il Pecorino toscano Dop, in questo senso, a fronte di un calo dei consumi sul mercato interno (-13%), lo scorso anno ha messo a segno un significativo +25% nell’export: con 15 milioni di euro di fatturato nelle vendite al dettaglio, e altri sei attraverso la Gdo (grande distribuzione organizzata). I caseifici maremmani che esportano, però, sono pochi e per fatturati residuali rispetto al mercato interno preponderante. Le stesse strutture che, peraltro, in gran parte non riescono a valorizzare economicamente le presenze turistiche attraverso manifestazioni come “Caseifici aperti” (sulla falsariga delle oramai affermate Cantine aperte). Questo – ha spiegato la curatrice del “Rapporto sul turismo gastronomico in Italia” Roberta Garibaldi alla recente edizione di Join Maremma Online – nonostante i turisti ricerchino con sempre maggior insistenza esperienze enogastronomiche nei luoghi di produzione del cibo. E non riescano a trovare un’offerta adeguata.
Uno dei problemi del tessuto produttivo maremmano, d’altra parte, rimane quello della dimensione media aziendale. Perché dare gambe a un distretto produttivo e cogliere le opportunità dell’export, significa tante cose. Come organizzare le produzioni per filiere, anche riuscendo a trasformare i prodotti agricoli locali per creare valore aggiunto e distribuire valore. Oppure essere in grado di fornire le grandi quantità richieste nei tempi programmati; avere certificazioni e know how gestionale; far parte di piattaforme logistiche/commerciali internazionali. Avere collegamenti efficienti. Insomma ragionare in termini industriali veri e propri, perché conquistare fette di mercato nella Gdo, nelle catene della gastronomia di qualità o sui mercati esteri non è certo alla portata di piccole imprese che agiscono nella logica della vendita diretta a km zero. Che sono la grande maggioranza del tessuto produttivo provinciale.
Una realtà consolidata che opera con profitto in questo ambito è senza dubbio il consorzio Grosseto Export, che raggruppa una trentina di aziende agroalimentari di medie dimensioni, non solo maremmane. Ma che purtroppo non aggrega nemmeno tutti gli operatori della provincia di Grosseto interessati ad esportare.
Nonostante le evidenti difficoltà, tuttavia molte cose sono in movimento. In attesa che si svegli dal letargo il ministero dell’Agricoltura, ad esempio, la Regione Toscana ha pubblicato bandi con contributi per 15 milioni
di euro riservati alle aziende insediate nel territorio del Distretto rurale Toscana sud.
In dirittura d’arrivo, inoltre, il Polo per l’innovazione agroalimentare di Rispescia (finanziato dalla Regione), per il quale sarà a breve individuato il soggetto gestore. Che si occuperà di ricerca e trasferimento tecnologico per le aziende di trasformazione e commercializzazione di prodotti agroalimenatri.
Pochi giorni fa, invece, Gianni Lamioni, in veste di presidente del consorzio di artigiani Artex, ha anticipato che ad ottobre si terrà a Grosseto “Italian Taste Experience 2019”, primo salone nazionale delle specificità e delle creazioni agroalimentari, al quale contribuiranno Istituto per il commercio estero (Ice) e Regione Toscana. Una scommessa che avrebbe l’ambizione di rappresentare un punto di riferimento nazionale per le aziende artigiane che operano nel comparto agroalimentare, diventando un appuntamento fisso nel palinsesto delle manifestazioni di settore. Nelle aspettative all’edizione zero dovrebbero partecipare circa 200 espositori, accolti a Braccagni nel polo espositivo di Grosseto Fiere. Un appuntamento B2B (business to business) che si spera abbia una sorte diversa dalle quattro edizioni del “Maremma wine & food shire”.
Nel frattempo, la prossima settimana, Siena ospiterà la prima edizione di Buyfood Toscana, vetrina del gusto made in Tuscany che permetterà a 50 aziende, 15 consorzi e associazioni di tutela che rappresentano produzioni Dop, Igp e Agriqualità, d’incontrare decine di buyer provenienti da tutto il mondo. In questo caso un’occasione per valorizzare e promuovere i prodotti toscani certificati: dall’olio extravergine al pane, dal prosciutto al pecorino passando, per la cinta senese e arrivando poi ai cantucci e ai ricciarelli, solo per citare alcuni dei prodotti. Anche questa un’opzione coerente con la vocazione del Distretto agroalimentare della Toscana del sud.
In definitiva, l’effervescenza di questi ultimi mesi può essere il preludio a novità positive che segnino un cambio di passo per la Maremma e il suo variegato tessuto produttivo agroalimentare, oppure all’ennesima delusione per la quale tra un po’ di tempo doversi leccare le ferite.
Perché le cose prendano da subito una piega positiva, occorre spirito di collaborazione e impegno da parte di tutti. Istituzioni pubbliche e mondo dell’impresa, nelle sue diverse articolazioni. A ciascuno il suo. Per una volta, infatti, sarebbe sorprendente che ognuno facesse bene il proprio lavoro, concorrendo senza egoismi, personalismi e megalomanie all’emancipazione economica e culturale di un territorio che ne ha un bisogno disperato.