Nei giorni delle commemorazioni per la Liberazione, grazie ad una collega giornalista, Noemi Mainetto, abbiamo scoperto una piccola storia di eroismo, abnegazione e resistenza. La storia di Giovanni Mainetto, che fece saltare la sua azienda, il sugherificio Su.Ma., pur di non farlo diventare il quartier generale di nazisti e fascisti. A raccontarla, attraverso il nostro giornale, è la nipote Noemi, così come l’ha ascoltata tante volte dalle parole del padre.
Quando ero piccola mio babbo mi raccontava una storia fantastica, un po’ romanzata, che a me affascinava molto e, benché non ne capissi bene il significato, mi inorgogliva. Parlava di mio nonno, un “omone” forte e bello, alto un metro e 90 per 100 chili di peso… di stazza direi.
La mia famiglia ha un passato importante ed è una delle famiglie più vecchie di Follonica.
Venne qui il mio bisnonno (anche se ho scoperto da pochi giorni che in realtà pare che fu il trisavolo ad arrivare qui, nella costa maremmana dove la malaria dominava, da un paese nella provincia di Genova, che si chiamava e si chiama, non a caso, Mainetto).
Una famiglia molto benestante, con una caratteristica che a me è sempre parsa tanto strana: la ripetizione degli stessi nomi, ma non solo nel ceppo follonichese, anche in quello genovese e in quello dell’America latina (grazie a facebook in parte ritrovato) . E i vari Enrico, Giovanni, Giacomo, Mario, Carlo, e tutte le possibili declinazioni femminili, hanno segnato l’esistenza (ob torto collo) di tutte le generazioni, fino a oggi.
Ieri, il 25 aprile, mi è tornata in mente una vicenda che riguarda mio nonno Giovanni, che può essere letta proprio come un pezzetto di storia della mia città, nel periodo della seconda guerra mondiale.
Mio nonno era il fratello maggiore di 6 figli di una delle prime famiglie della nascente Follonica. Il suo babbo, il mio bisnonno Enrico, aveva aperto il primo albergo della città, in via Bertani (poi divenuto villino Mainetto, residenza familiare), e aveva la licenza commerciale n.1 del Comune: una licenza che racchiudeva ogni categoria commerciale, con la quale aveva aperto la prima tabaccheria follonichese, in via Roma (ancora oggi esiste, ma con nuovi proprietari) dove la mia bisnonna lavorava con uno dei figli, e vendeva, tra le altre cose, le cartoline di una vecchia Follonica, con il timbro “Tabaccheria Mainetto”, che ancora sono visibili in alcuni ristoranti della città (tipo la nota Trattoria “Santarino”).
Mio nonno Giovanni era un uomo d’affari: due figli (mio babbo Enrico e mia zia Maria Olga) e una moglie (Noemi appunto) scomparsa troppo giovane, a 47 anni, e seguita da lui dopo solo due anni, anche egli giovane (mio babbo rimase orfano a 17 anni).
Nonno, che era stato direttore della Cartiera, aveva aperto un sugherificio, il SUMA Sugherificio Maremmano. Era un repubblicano, anzi un mazziniano, ed un partigiano attivissimo e, per questo, molto attenzionato. Aveva diversi dipendenti , tutti follonichesi (i nonni di alcune mie amiche, con le quali ho condiviso le scuole, l’adolescenza e di fatto tutta la vita) ed era un generoso e un buono.
In questo contesto, si arriva alla seconda guerra mondiale: mio nonno e mia nonna, mio babbo e mia zia piccoli, il SUMA, la resistenza, una Follonica fatta di poche famiglie, molte delle quali legate alla ghisa (anche la mia ovviamente, dalla parte di mia nonna, ma questa la racconterò un’altra volta) e racchiuse all’interno dell’Ex Ilva, un prete, Don Ugo Salti, grande amico di mio nonno.
In questo contesto i tedeschi decisero di usare il sugherificio SUMA, che era in quelo che è ora il centro (vicino alle scuole elementari di via Buozzi) come base. E nonno, uomo volitivo, forte e passionale, assunte le informazioni necessarie, meditò il modo per “resistere” non dando il suo sugherificio a disposizione, e cosa fece? Durante la notte lo minò e lo fece saltare, aiutato dai suoi operai. E da lì iniziò la loro vita da sfollati, che durò per più di un anno: nonno andò in Pian d’Alma, in Valmulina, dove aveva una casetta tra la macchia, con tutta la sua famiglia (babbo aveva 6 anni) portandoci anche (e provvedendo al sostentamento) tutti i suoi dipendenti, le famiglie e Don Ugo. E da lì, da Pian d’Alma, nonno e gli altri continuarono a fare la resistenza.
Tornarono tutti alla loro Follonica alla fine della guerra, e lì rimasero e contribuirono a inurbare e far vivere la nostra città, consegnandola alle generazioni future, quindi anche a me.
Di questo, del modo di essere di questo nonno mai conosciuto, della sua generosità e della sua fermezza, caratteristiche che tutti coloro che lo hanno conosciuto mi hanno descritto con grande trasporto (per esempio i nonni delle mie amiche e i vecchi follonichesi a lui sopravvissuti, come Lido Raspollini) io sono sempre stata orgogliosa, e forse oggi, con una maturità diversa, ne sono talmente felice da voler rendere pubblica questa piccola storia di famiglia, che sono certa sia solo una delle tante che ognuno di noi avrebbe da raccontare.
Sapete come è finita la storia del sugherificio SUMA? Circa 35 anni dopo (io ero all’Università, questo me lo ricordo perfettamente!) a babbo Enrico arrivò una raccomandata con un assegno: lo Stato aveva liquidato a mio babbo (erede di nonno, che era mancato nel 1956) 45.000 lire, per danni di guerra, per quel sugherificio, il SU.MA, che i vecchi follonichesi, ma solo loro, avevano conosciuto.