Manco a dirlo, ma il rischio concreto – col senno di poi – sarà quello di trovarsi a piangere sul latte versato. Non solo quello vero spagliato in questi giorni per protesta dai pastori sardi e toscani, ma anche quello metaforico dell’ennesima occasione gettata al vento per imprimere una sterzata efficace alle politiche della filiera lattiero casearia. Decisamente in preda a una crisi di nervi.
Perché in questa storia della protesta mediatizzata degli allevatori che cospargono scenograficamente di latte le piazze dell’Italia centrale, ben poco corrisponde in realtà a quel che appare. Nel consueto gioco di specchi in cui tutti riverberano le colpe degli altri dissimulando le proprie.
Dal punto di vista dei consumatori, per dirne una, non basta provare simpatia per i pastori che fanno un lavoro ingrato quanto determinante per la tutela ambientale delle nostre zone collinari. Né è sufficiente commuoversi per le pecore sgozzate dai lupi, ma soprattutto dagli ibridi e dai cani inselvatichiti. Dal momento che cliccare “mi piace” su facebook è molto facile e soprattutto gratuito, rispetto a fare la scelta di acquistare il pecorino che si trova nei banchi delle gastronomie. Facendo i conti con il proprio portafoglio.
L’emotività, in questa come in altre vicende, lascia il tempo che trova. Perché il problema da fronteggiare è piuttosto complicato, e riguarda la creatura feroce del “mercato”. Che non fa sconti né a chi produce il latte ovino, né a chi lo trasforma in formaggio, né a chi lo vende al pubblico e a chi poi lo consuma.
Due numeri aiutano a capire. Sono quattro le principali regioni produttrici di latte ovi-caprino che rappresenta appena il 5% del latte italiano, prevalentemente vaccino: Sardegna (1.300.000 capi), Sicilia (900.000), Lazio (700.000) e Toscana (350.000). Questo latte viene destinato alla produzione di pecorino Dop (romano e toscano), pecorino non certificato, formaggi misti, primo sale e fiore.
La crisi delle vendite del pecorino romano Dop che ha innescato le proteste dei pastori, prima sardi, poi toscani e laziali, ha un’origine precisa. Nel 2018 a fronte di una produzione programmata di 28.000 tonnellate i caseifici hanno messo sul mercato 34.600 tonnellate di pecorino romano (+23%), rispetto a una media degli ultimi anni variabile tra le 25 e le 26mila tonnellate. Nello stesso tempo l’export del prodotto è crollato del 33%, addirittura del 44% in Usa e Canada. La conseguenza è stata il tonfo del prezzo del latte e l’ingigantirsi delle scorte. A proposito: facile fare i sovranisti alimentari quando conviene, salvo scoprire che molte delle proprie fortune dipendono da quanto formaggio comprano all’estero.
Nel solco della più deleteria tradizione nazionale, a fronte di tutto questo la “soluzione” individuata da una parte del mondo dei produttori, spalleggiati dai trasformatori, è stata la più scontata che si potesse immaginare: comprate coi soldi pubblici migliaia di tonnellate di pecorino romano rimaste nei magazzini, per indurre un aumento del prezzo del latte. Esattamente la stessa mefitica logica che con la regia della Lega ha già prodotto il disastroso capolavoro dello sforamento delle quote latte (vaccino) degli anni ’90, il cui esito sono stati i 5 miliardi di euro di multa giustamente inflitti dall’Unione europea. Che oggi paghiamo con le nostre tasse.
Sul latte ovino il conto è più modesto ma comunque salato – questa è l’offerta del governo Conte – e ammonta a 44 milioni di euro. Dieci dei quali messi gentilmente a disposizione dal Viminale, perché, si sa, il ministero dell’interno ha da tempo immemore una competenza specifica su pecore e capre….Salvo il fatto che i pastori hanno respinto l’offerta al mittente, considerata modesta rispetto alle loro aspettative. Peccato che oggi non ci siano né le condizioni economiche né quelle giuridiche per battere una strada simile.
A guardare le cose per quello che sono, sulla vicenda in questione siamo di fronte all’ennesima variante del populismo. Con un movimento di pastori che, oltre a rifiutare con azzardo la rappresentanza dell’associazionismo d’impresa, supera a destra i campioni del populismo politico, costituito da politici di professione che nel frattempo per contestare la politica hanno cavalcato il Comitato pastori d’Italia. Il tutto, poi, paradossalmente, per chiedere alla politica di risolvergli il problema.
Ad ogni modo, i pastori hanno molte ragioni dalla loro. Ma soprattutto hanno ragione a dire che non possono lavorare sottocosto, pagando anche per le inefficienze delle altre componenti della filiera: grossisti, trasformatori, distributori e commercianti.
Senza fare voli pindarici, né operazioni di basso cabotaggio, l’unica soluzione per gli allevatori è avere un ruolo diretto nella fase di trasformazione e commercializzazione. Cosa che in alcune realtà virtuose, dove le associazioni di categoria esercitano positivamente il loro ruolo e c’è spirito imprenditoriale, avviene già da tempo.
A Grosseto, ad esempio, c’è l’esperienza positiva dei caseifici sociali. Costituiti da produttori associati in cooperativa che riescono a gestire la fase di produzione del latte, certificato, quella della trasformazione e poi della vendita del prodotto a commercianti e Gdo. Ragionando in termini di mercato e riuscendo a garantire una marginalità che consente alle aziende di lavorare dignitosamente. Pur nelle attuali difficili (per tutti) condizioni di mercato. Non a caso Grosseto è sede del Consorzio di tutela del Pecorino toscano Dop, che promuove la produzione dei circa 3.500 tonnellate di formaggio a denominazione.
Il Caseificio sociale di Manciano – la cui produzione è per metà di Pecorino toscano Dop – è un esempio virtuoso di ciò che andrebbe fatto. L’azienda, cui sono associati 230 allevatori, si occupa del ritiro del latte, della trasformazione e della commercializzazione del formaggio. Il caseificio, inoltre, paga a ciascun produttore il latte conferito con una premialità variabile in base alla qualità di quattro parametri: proteine, grassi, cellule somatiche e carica batterica. Il prezzo del latte, quindi, non è fisso ma varia al variare delle qualità organolettiche del prodotto. Con questo metodo di calcolo, ad ogni modo, nel 2018 ai soci conferitori è stato in media riconosciuto un acconto di quasi 90 centesimi al litro, cui a consuntivo si aggiungerà una piccola quota di ristoro.
A fare la differenza vera, quindi, non può essere l’intervento dello Stato – tanto più che l’Ue vieta gli aiuti diretti – ma la gestione ancorata all’andamento del mercato del prodotto lattiero/caseario. L’unica che può garantire agli allevatori la marginalità che gli consenta di fare utili.
Altra cosa dall’assistenzialismo, è il sostegno alle politiche di filiera. Come ha appena fatto la Regione Toscana, che ha destinato 3 milioni di euro a indennizzi per i danni indiretti da predazioni, marketing e promozione sui mercati esteri, acquisto di capi geneticamente selezionati per la riproduzione.