GROSSETO – La morte del moldavo Petru Leorda è una di quelle che non coinvolgono nessuno, né generano empatia. Se non nella misura in cui validi gli stereotipi costitutivi del senso comune. Senza fissa dimora o clochard, nel migliore dei casi. Più probabilmente barbone, sbandato, balordo o disperato. Uno di quelli con cui, anche legittimamente, nessuno vorrebbe avere a che fare. Perché la marginalità, l’alcolismo e il disagio psichico, non te li vai a cercare se non ti ci imbatti per i casi della vita. Uno di quelli che è logico, “normale”, muoiano in un certo modo.
Però non è proprio così. E non tanto perché sia richiesto di commuoversi per una storia di disperazione umana, una delle troppe che in fondo non ci riguardano direttamente. Fatta di emigrazione, perdita del lavoro, alcolismo, solitudine e rottura dei legami famigliari. E nemmeno perché con ogni probabilità l’uomo è stato ammazzato; c’è ancora da stabilire come, e sarebbe “rassicurante”, quasi un sollievo, fosse successo per una rissa tra simili. Ma nemmeno questa morte meriterebbe attenzione per il fatto che, in fondo, può succedere a chiunque di noi di diventare un barbone, di ritrovarsi a fare una vita di strada. D’alta parte questa vicenda anonima non ha nemmeno scatenato la consueta meschina ondata d’insulti da parte degli odiatori da tastiera che infettano i social network.
No, il vero motivo per cui questa morte ci dovrebbe “interessare”, è perché ci parla del modo patologico con cui ostinatamente cerchiamo di rimuovere dalla nostra visuale tutto quello che ci disturba, che non sopportiamo. Fingendo che non esista. Di come cerchiamo di sterilizzare la realtà, rifiutandone gli aspetti sgradevoli, o più semplicemente avendo la pretesa di plasmarla a nostro piacimento.
Petru Leorda è stato trovato morto in un giaciglio posticcio protetto da un sottoscala, all’interno di un garage di un palazzo di via Adriatico, a Grosseto. Vicino a dove fino a qualche anno fa c’era la sede della Democrazia cristiana. Alle spalle della trafficatissima via Emilia. Prima di trasferirsi lì viveva accampato insieme a un gruppo di randagi di strada nel giardino di piazza delle Regioni, di fronte alla chiesa del Sacro Cuore. Da dove era stato sfrattato dal Comune – che aveva rimosso la panchina dove i clochard bivaccavano – a seguito di una segnalazione dei residenti. Da lì Leorda e il suo manipolo di marginali si erano trasferiti qualche centinaio di metri più in là, su una panchina di via Emilia, dalla quale sono stati ancora allontanati a seguito delle lamentazioni dei residenti. Un po’ sulla falsariga di quello che è già successo nei mesi scorsi, quando con lungimirante mossa tattica il Comune aveva eliminato le panchine dal piccolo parco di via Ximenes, anche in quel caso perché i barboni ne occupavano una.
Ora, è assolutamente evidente che chi vive nei pressi dei bivacchi di clochard ha tutte le ragioni per essere scontento, perché a nessuno può far piacere avere sotto casa scene di degrado umano, schiamazzi e un vasto campionario di comportamenti urticanti. Così come è chiaro che la morte di Leorda non ha alcun collegamento diretto col fatto che sia stato sfrattato da piazza delle Regioni prima, e da via Emilia poi.
Quel che invece diventa davvero patologico, invece, è pensare che il problema dei senza fissa dimora – ma in generale di chi vive ai margini – si possa affrontare rimuovendo panchine, murando ingressi di palazzi abbandonati o, come ha fatto a Follonica appena un paio di giorni fa Ferrovie italiane, abbattendo il tetto di due casotti nei quali si rifugiavano degli sbandati extracomunitari, sottraendogli con bieca premeditazione un effimero riparo dalle intemperie. Senza nemmeno avvertire il Comune che magari avrebbe potuto provare a fare qualcosa.
Questa logica disumana di fare terra bruciata intorno alle persone, smantellando ogni simulacro di rifugio senza nemmeno provare a costruire soluzioni alternative, per costringerle a spostarsi un po’ più in là fino a quando non occuperanno una terra di nessuno lontana dagli occhi, è d’altra parte popolare e porta consensi. Perché il cinismo tronfio, il disprezzo irridente, autocompiaciuto e violento di chi si congratula per l’annegamento di migranti nel canale di Sicilia, è la putrescente cifra psicologica dei nostri tempi. Assecondando la quale si liscia il pelo alla marmaglia irritata e volubile, senza incidere minimamente sulla realtà e sul suo corollario di sofferenze umane. Perché la verità, dietro alle enunciazioni di principio moraliste e autoritarie sulla decadenza dei costumi, è che ci stiamo abituando al disprezzo, all’anestesia emotiva e all’idea che la realtà non si può modificare. Fino ad arrivare alla rimozione collettiva dei problemi con il pretesto autoconsolatorio che ce ne sono sempre altri ben più grandi, e quindi degni di sforzi.
Tuttavia non è così. Lo dimostrano istituzioni come il Coeso, o associazioni meritorie come “La Strada”, la Caritas, o preti di strada come don Enzo Capitani, che a Grosseto presidia da tempo il fronte della marginalità sociale. Naturalmente non sempre i risultati ottenuti sono all’altezza degli sforzi compiuti, ma l’importante è provarci. E sarebbe legittimo aspettarsi un’attenzione partecipa e fattiva da parte delle istituzioni e della politica. Perché come dice il Talmud: «chi salva un uomo, salva il mondo».
A proposito di rimozione psicologica dei problemi – non reale – un’ultima considerazione. O meglio una previsione. Il prossimo fallimento di una prospettiva chiaramente illusoria riguarderà le Mura medicee. L’illuminazione dei bastioni e dei camminamenti cinquecenteschi non risolverà il problema dello spaccio di sostanze stupefacenti, né quello delle orde di adolescenti in preda agli effetti degli shottini alcoolici. Bene che andrà, spaccio e consumo si sposteranno un po’ più in là, nel boschetto intorno allo stadio di calcio, o nel parco di via Giotto. Piuttosto che in altre zone.
Per chi coltiva il falso moto della Grosseto che fu, dove si poteva lasciare la chiave nella toppa, un consiglio: legga “Piccola città, una storia comune di eroina” di Vanessa Roghi. Racconta con lucidità come negli anni ’80 e ’90 Grosseto sia stata una delle capitali italiane del consumo di droga, e quanto il problema fu oggetto di una collettiva rimozione emotiva e culturale. Sarà facile capire perché le cause dei fallimenti di ieri, saranno le stesse di quelle di domani.