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Può un filare di pini domestici assurgere a simbolo di una trascendentale battaglia “di civiltà”? Anche no, onestamente. Per quanto quello del verde pubblico nelle aree urbane sia un tema rilevante. Da non prendere sotto gamba né ridicolizzare. Se non altro perché ombreggiatura, assorbimento della CO2 e valore estetico delle piante sono temi d’interesse generale, al pari delle piante che cadendo rovinosamente a terra mettono a rischio le persone. Distruggendo un furgone, e meno male solo quello, com’è successo pochi giorni fa nel parco di villa Pizzetti a Grosseto. Oppure semplicemente collassando sulla pista ciclabile a due passi dalla chiesa del Cottolengo, pochi giorni prima. Ma anche crollando sulla carreggiata della strada delle Collacchie tra Marina di Grosseto e Castiglione della Pescaia, come nell’ultimo weekend hanno fatto ben quattro alberi abbattuti dal Maestrale. Guarda caso tutte piante di pino.
Assodato che i pini – e in modo particolare i pini domestici (pinus pinea) – sono belle piante, maestose e utilissime sotto il profilo funzionale perché garantiscono ombra, rimane tuttavia un mistero gaudioso della fede il motivo per cui non possano essere abbattuti e sostituiti, nel caso in cui siano stati piantati nel posto sbagliato. Risultando per ciò stesso instabili e pericolosi, essendo oltretutto arcinoto il problema delle radici che diramandosi in orizzontale creano gibbosità e divelgono sottoservizi, marciapiede e financo muri di recinzione.
Motivi di buon senso che, in tutta sincerità, non giustificano le sollevazioni contro l’abbattimento di un po’ di piante, come nel caso dei pini di via Mascagni – notoriamente pericolosi – e prima ancora nelle vie Uranio, Telamonio e Caravaggio, sempre a Grosseto. Cosa avvenuta in precedenza con le medesime modalità di protesta anche a Follonica e in altre località della provincia. Vandee para ambientaliste che periodicamente assediano tutte le amministrazioni comunali, a prescindere da chi sia momentaneamente al governo. Dal tipo di piante da tagliare e sostituire.
Certo, la cura del cospicuo patrimonio arboreo delle nostre città è spesso negletta e tapina, con una manutenzione episodica e approssimativa. Ma le difficoltà economiche degli Enti locali non sono un mistero per nessuno, e a fronte di altre priorità è alquanto pretenzioso chiedere di destinare risorse ingenti al verde pubblico. Anche al netto di sprechi e gestioni opinabili dei bilanci. Per non considerare che siamo tutti ambientalisti nel nostro “cortile di casa”, ma ferocemente contrari all’aumento delle tasse comunali.
Poi ci sono le incursioni politiche che non mancano mai, perché nessuno dall’opposizione si priva almeno una volta dell’ebrezza effimera di cavalcare un comitato della “società civile”. Salvo poi passare dal ruolo di carnefice a quello di vittima, nel momento in cui l’alternanza porta l’opposizione al governo. In un ciclico gioco delle parti nel quale i poveri alberi vengono utilizzati a turno come pretesto di epiche battaglie politiche.
Infine ci sarebbe il buon senso, che imporrebbe di non convocare “stati generali della botanica e dell’arboricoltura” sotto l’egida dell’Onu, scomodando luminari dell’accudimento delle piante, ogni volta che c’è da abbattere qualche filare d’alberi. Magari ingaggiando duelli rusticani di fronte a Tar e Consiglio di Stato, oppure scomodando la Procura della repubblica. E invece preoccuparsi di come e dove verranno ripiantumate nuove essenze sostitutive, mettendo nel conto che inevitabilmente avranno bisogno di acqua, tempi fisiologici ed empatia umana per raggiungere dimensioni adeguate.
A Follonica, ad esempio, dopo le fiammate polemiche per l’abbattimento degli alberi su via Massetana, nel Parco centrale e nella pineta di ponente, l’amministrazione comunale ha deciso di adottare un piano e un regolamento per il verde. Cosa senz’altro lungimirante, non tanto perché toglie argomenti agli arborofili polemisti a prescindere, ma perché come per ogni cosa programmazione e regole chiare su come intervenire aiutano a prevenire cazzate colossali. Come quella di piantare l’albero sbagliato nel posto sbagliato. Possibilmente nel momento sbagliato.
Il verde pubblico è un patrimonio di tutti, prezioso e determinante per migliorare la qualità della vita nelle città. Quindi un’eredità che va preservata e rinnovata. Su questo non c’è dubbio. Ingaggiare battaglie furibonde per non sostituire i pini con altre topologie di piante, scomodando identità culturale, genius loci e surreali teorie che “umanizzano” le piante, non è esattamente il miglior modo di salvaguardare il patrimonio arboreo delle nostre città. Un atteggiamento velleitario e sterilmente polemico, che nulla ha a che vedere con il civismo vero di chi si mobilità per farsi carico di un problema. Con l’obiettivo di trovare soluzioni ragionevoli senza alimentare la logica dell’ordalia.
L’impressione, piuttosto, è che certe esasperazioni siano più una patologia sociale che altro. Come se oramai, messe da parte le ambizioni collettive di provare a cambiare le cose davvero, sia più confortevole concentrarsi su proprio orticello. Raccontandosi la storiella consolatoria che si parte dalle piccole cose per raggiungere i grandi traguardi. E finendo per fallire anche i piccoli traguardi inseguendo immaginarie rivoluzioni. Il classico esempio di eterogenesi dei fini, che prende le mosse da un’errata concatenazione tra causa ed effetto.