GROSSETO – Oggi sono 52 anni. Era il 4 novembre del 1966. La città veniva invasa dall’acqua e dal fango esondati dall’Ombrone. Giorni e giorni di piogge continue; i fiumi si erano ingrossati, i terreni erano ormai fradici, i campi allagati, nelle campagne la terra fangosa affondava sotto gli stivali.
«Ero in servizio presso la stradale di Arcidosso – ricordava due anni fa Guido Filippetti – pioveva già dal giorno prima. Il 3 sera, alle 19.30 siamo partiti, io e il brigadiere, con una campagnola per andare a vedere come era la situazione dell’Ombrone. Arrivati al ponte sul torrente Fogna il ponte era parzialmente crollato. Non avevamo nulla per segnalare la cosa, e così ci siamo messi davanti al ponte con l’auto e quando vedevamo un mezzo arrivare dall’altro lato attraversavamo a piedi per fermare le auto. Ad un certo punto il ponte è crollato del tutto».
Filippetti aveva raccontato anche un lieto evento di quei giorni tragici «C’era una donna ad Aratrice che doveva partorire, aveva le doglie, ma l’ambulanza, essendo troppo bassa, non riusciva a passare, come anche la levatrice. E così sono stati i poliziotti che, con la loro auto, sono andati a prendere la donna e l’hanno accompagnata all’ospedale dove ha dato alla luce un maschietto, nato proprio il giorno dell’alluvione».
Fu Omero Pucci, con il megafono, la piena alle spalle quasi a rincorrerlo, a svegliare la gente e a dirle di salire ai piani alti. Sul tetto se necessario. I Vigili urbani di Grosseto presero le moto e cominciarono a girare per le strade per avvertire tutti che stava arrivando la piena, di salire ai piani superiori di mettersi in salvo. Tra loro, come ricordò Felice Serra (allora capo della Municipale), durante le manifestazioni dei 50 anni dall’alluvione, Giuliano Bianchini, il vigile che, con la moto, andò a controllare, la mattina del 4, la situazione dell’argine e tornò precipitosamente indietro inseguito dalla piena dell’Ombrone.
Poi alle 7.45 il fiume ruppe gli argini in tre punti e la città fu invasa dall’acqua: abitazioni, locali, bar. Il corso come un fiume con le case a fare da argine, le cose, gli oggetti trascinati via dall’acqua che raggiunse anche i tre metri. Le auto parcheggiate sulle Mura, per cercare di salvare il frutto di tanti sacrifici. Ma anche le campagne furono devastate.
«I miei genitori (che erano i titolari del Caffè nazionale) – afferma Laura Cutini – videro spazzato in un’ora il lavoro di 20 anni. Loro rimasero sulle mura, e furono ospitati dai miei zii mentre io e Silvia rimanemmo in casa in via dei Mille con la nonna».
Gli arcieri della città si dettero subito da fare: dalle Mura lanciavano frecce legate a grosse funi che, con le carrucole, servivano a far arrivare i viveri ai grossetani intrappolati nelle case: tra loro anche un giovane Lucio Parigi.
Quando le acque si ritirarono lasciarono un carico di morte: gli animali, le mucche delle fattorie, tutte annegate. E soprattutto un uomo, per salvare la mandria morì il buttero della fattoria Acquisti, a Braccagni, Santi Quadalti (nella foto sopra) che si gettò nelle acque per aprire il recinto e far fuggire gli animali e invece perse la vita assieme a quelle bestie che voleva salvare.
Anche gli impianti sportivi furono invasi da fango e acqua lo stadio del Grosseto fu ricoperto dal fango e giocatori e dirigenti si improvvisarono muratori e operai per rimettere tutto a posto.
L’opera di ricostruzione, guidata dal sindaco Renato Pollini, fu immane. Fu una specie di anno zero per la Maremma, ma, come ricordava lo stesso Pollini, la popolazione «non si pianse addosso ma seppe rimboccarsi le maniche per ricostruire la città». Una città che si scoprì sola ma vicina, una città che fece quadrato attorno a chi aveva perso tutto.
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