Sta assumendo le fattezze dell’ennesimo “scontro di civiltà”, ma la nuova regolamentazione delle aperture domenicali e festive di negozi e supermercati sarebbe una cosa seria. Non foss’altro che riguarda un gran numero di persone. Sia in veste di lavoratori che in quella di consumatori.
Il fatto che la sola ipotesi di una revisione abbia subito aizzato Guelfi e Ghibellini, a prescindere dal merito delle questioni, non è sorprendente. Viviamo tempi in cui ragionare è un optional, e difendere il capo fazione il mantra di gran lunga prevalente.
Detto questo, come stanno le cose in provincia di Grosseto? Il dato occupazionale degli addetti del commercio dice che nel comparto lavorano 12.418 persone (dato 2016). Peraltro in leggera crescita sui 12.175 addetti del 2009. Dato che esclude gli operatori del terziario, ovverosia coloro che lavorano nell’artigianato, nei servizi alle imprese, nel turismo e pubblici esercizi.
Una prima considerazione, un po’ scomoda, è che in questi anni la grande e media distribuzione hanno sicuramente dato un colpo al commercio di vicinato, ma questo sotto il profilo occupazionale si è tradotto in una migrazione di addetti da un canale di vendita all’altro, con una leggera crescita di occupati (quasi stasi). Sullo sfondo la lotta epocale, senza esagerazione, tra grande e media distribuzione, su un fronte, e i portali del commercio elettronico alleati con i grandi corrieri, dall’altra. Uno scontro che si gioca su strategie raffinate per la sopravvivenza del commercio tradizionale a grande e piccola scala, quello vis à vis cliente addetto alle vendite, declinato nelle sue varie articolazioni. Dalla bottega boutique all’ipermercato, passando per superstore, centri commerciali naturali e strutture della media distribuzione. Un campo di battaglia dove si fronteggiano anche diversi approcci al consumismo, ma nel quale è spesso difficile capire chi sia il nemico da combattere. O se sia sempre vero che “il nemico del mio nemico, è mio amico”. Tanta è la variabilità delle condizioni di mercato.
Chiudere tutte le domeniche e i festivi, escluse le festività clou. Chiudere a rotazione, garantendo i servizi. Aprire solo alcune domeniche al mese. Lasciare le cose come stanno. Sono in sintesi le diverse opzioni sul tavolo. Ma è complicato riassumerne i contenuti di dettaglio di ciascuna, peraltro in assenza di punti fermi. La discussione, poi, è abbondantemente inquinata da atteggiamenti parossistici, che vanno dal grottesco iperliberismo di immaginari campioni dei consumatori che esaltano le aperture h24, manco fossimo a New York, magari snob che mai hanno calcato i pavimenti di un supermercato. Fino ai patetici difensori della “famiglia tradizionale”, che nella diatriba sugli orari del commercio hanno intuito un possibile cavallo di Troia per rilanciare i propri temi negletti nell’opinione pubblica. E infine non aiuta nemmeno l’esasperazione dello scontro per motivi politici che viene dal ministro Di Maio, la cui autorevolezza di cose economiche è oltretutto alquanto periclitante, o quella degli ascari dei “fu” governi, in missione per conto di Dio come i Blues Brothers (senza averne le credenziali).
A voler semplificare, inevitabilmente, la vera questione è come conciliare il diritto di chi lavora a non essere spremuto come un limone nel meccanismo infernale del consumismo elevato a stile di vita, e quello di consumatori a loro volta sempre più ostaggio dei ritmi incalzanti dell’esistenza. In definitiva è un problema complesso che riguarda la qualità della vita degli esseri umani.
Demiurghi infallibili, su questa come su altre questioni, non ce n’è né potrebbero essercene. Bisogna quindi partire da qualche asserzione condivisa. La prima delle quali è che fare la spesa sempre e comunque non è un bisogno primario dell’uomo, come avere gli ospedali aperti, i pompieri disponibili e altri servizi d’emergenza e pubblica utilità. La libertà di scelta dei consumatori, peraltro va garantita, e bisogna tenere presente che in una realtà come la nostra, che totalizza quasi 6 milioni di presenze turistiche all’anno, per almeno quattro mesi su dodici non si può ignorare la peculiarità della domanda di servizi commerciali sette giorni su sette.
La Gdo (grande distribuzione organizzata) attraverso Federdistribizione sostiene che le chiusure domenicali e festive farebbero perdere tra i 40 e i 50.000 posti di lavoro, e comporterebbe una riduzione dei ricavi, aumentati grazie alle liberalizzazioni del decreto “Salva Italia” di Monti che ha fatto crescere dell’1% le vendite alimentari e del 2% quelle non alimentari.
Dal punto di vista di chi lavora, però, c’è un problema serio. Come più volte denunciato dal sindacato che porta ad esempio l’incremento dei contenziosi, non sono pochi i dipendenti – full e part time, a tempo determinato e indeterminato – che vengono sottoposti a veri e propri ricatti occupazionali, anche in strutture della grande e media distribuzione. Per cui si ricorre a espedienti di vario genere per evitare di pagare le maggiorazioni contrattuali del 30%: «domeniche lavorate come turni di lavoro da recuperare durante la settimana – ha dichiarato la Cgil – o in alcuni casi una sorta di banca ore non contrattualizzata né contrattata». Peraltro, sottolineano i sindacati, dal 2012 a oggi le vendite non sono realmente aumentate, ma si è semplicemente redistribuito su sette giorni alla settimana il lavoro che prima veniva svolto in sei. Tutto scaricato sui turni lavorativi dei dipendenti, che di fatto finiscono per vedersi stravolti i normali ritmi di vita.
Infine, ma non per ultimo, il problema del commercio al dettaglio e di vicinato, assediato da Gdo, media distribuzione e commercio elettronico. Impossibilitato oggettivamente a reggere i ritmi di una competizione giocata su aperture prolungate e senza soluzione di continuità.
considerato che soluzioni che accontentino tutti sono improbabili, ma non succede quasi mai, il buon senso spingerebbe nella direzione del compromesso. Parola desueta e oramai connotata in modo caricaturale di significati negativi se non inverecondi. Per quanto la mediazione e la consapevolezza di dover cedere qualcosa, siano spesso nella vita reale i fattori che producono risultati concreti.
Certo, ad oggi l’andazzo è tutt’altro che quello auspicabile. Perché la tentazione della politica di spartirsi fette di consenso sposando l’uno o l’altro interesse, è piuttosto allettante in termini elettorali. Una lusinga alla quale non sfuggono peraltro nemmeno gli stessi portatori d’interessi schierati sul campo. Speriamo solo che le schermaglie viste finora obbediscano alla ratio del motto latino “si vis pacem, para bellum”. Che di divisioni reali e fittizie ce ne sono già anche troppe, e le persone normali (ammesso che siano ancora la maggioranza) non sentono il bisogno della conta dei “morti e feriti” rimasti sul terreno.