A guardarlo col binocolo il Parco regionale della Maremma sembra la bella addormentata nel bosco. Un’Alfa Romeo “Stelvio” che viaggia alla velocità di crociera della Fiat “Panda”.
Quello della valorizzazione di parchi e aree protette non dev’essere un lavoro facile, non ci piove. Perché tenere insieme tutela e conservazione ambientale con turismo e sviluppo economico è cimento periglioso. Assediato dagli opposti estremismi dei “conservisti” e degli “sviluppisti”, con conseguente spicinio del buon senso. Però, però, a occhio e croce si potrebbe fare meglio. Molto meglio.
E siccome rimanere sulle generali è troppo facile, cominciamo dalla fine: a frenare il Parco della Maremma è la “danniva” doppia giurisdizione sul suo territorio dell’Ente Parco e dell’Azienda agricola regionale, ma anche la scarsa propensione a fare rete del letargico sistema turistico ricettivo. Eppure all’inizio dello scorso maggio la sorniona presidentessa Lucia Venturi ha presentato dati tutto sommato positivi: un trend crescente dei visitatori negli itinerari naturalistici interni all’area protetta, rinnovati e ampliati, con un balzo nell’ultimo triennio da 38.800 a 49.900 persone (+ 11.000). Ai quali si aggiungono i circa 100.000 visitatori che nel 2017 hanno raggiunto in macchina la spiaggia di Marina di Alberese, più o meno altrettanti sulla spiaggia libera di Principina a Mare, e circa 50.000 che hanno guadagnato la spiaggia del parco con autobus e bicicletta. Insomma apparentemente tutto bene. Anche se i numeri pesanti, per l’indotto economico che garantiscono e per la motivazione al viaggio che li precede, sono quelli dei visitatori degli itinerari: cioè i quasi 40.000 di cui all’inizio del ragionamento. Dei quali solo 13.958 sono riconducibili agli arrivi registrati lo scorso anno in agriturismi, case vacanze e affittacamere all’interno dell’area parco e nell’area contigua. Insomma i turisti non mordi & fuggi. Che vengono perché hanno una cultura ambientale e pernottano, visitano i dintorni e spendono. Perché i vaini non fanno schifo a nessuno.
Se le cose stanno migliorando, anche sensibilmente, tuttavia questo non basta. Perché se avesse altri strumenti il Parco potrebbe viaggiare a velocità di gran lunga più elevata. Pardon, in omaggio al turismo slow: potrebbe garantire esperienze a molte più persone. Con soddisfazione dell’indotto che gli gira intorno, e che oggi lavora per pochi mesi all’anno.
Di chi è la “colpa”? Di tutti e di nessuno? Senza personalizzare – che non serve – un primo evidente nodo critico sta nel doppio livello di governo che coabita nei 10.000 ettari di area protetta: l’Ente Parco, che già deve vedersela coi privati proprietari di porzioni di territorio, e l’Azienda agricola regionale di Alberese (oggi Terre agricole regionali), un Titano che gestisce anche molte altre aree agricole della Regione, come un pezzo del Parco di San Rossore. Diarchia anacronistica avviluppata in protocolli d’intesa e convenzioni che regolano macchinosamente il sinallagma fra simili – d’altra parte siamo entrati nell’epoca del “Contratto”. Perché Ente Parco e Terre agricole regionali sono entrambi figli della Regione Toscana, e figliastri dei Comuni della Comunità del Parco.
Semplificando un po’: basterebbe un solo soggetto gestore/programmatore che avesse una visione unitaria dell’area parco, e che si occupasse di produzione agricola, conservazione della natura e politiche turistiche. Invece dell’ircocervo burocratico e amministrativo al quale tutti danno il proprio contributo di caos: Comuni, Regione, associazioni ambientaliste e agricole, comitati e gruppi di pressione economica. Tutti insieme appassionatamente.
Se la parte pubblica piange, però, quella privata ride poco. O nulla. In tutti questi anni, infatti, a sottolineare l’insopprimibile vocazione a fare repubblica ognuno per proprio conto, agriturismi e aziende agricole nono sono stati in grado di tenere insieme un unico consorzio d’area. Che gestisse e promovesse in modo unitario incoming e marketing turistico, terreno privilegiato dell’iniziativa privata. Insomma la solita solfa: ognuno per sé e Dio, la mucchina pubblica, per tutti. Alla quale è stato sempre chiesto di promuovere il Parco sui mercati turistici nazionali e internazionali, apportando risorse private praticamente irrisorie. E soprattutto frammentate in mille rivoli.
Prova ne sia che solo da tre mesi – e su iniziativa dell’Ente Parco – si sta dando il là al “Marchio collettivo di qualità Parco della Maremma”, al quale a maggio avevano aderito solo 12 attività. Quando in altri parchi e aree protette, molte delle quali al Sud, consorzi e marchi di qualità sono realtà solide già da molti anni, se non un paio di decenni.
A questo proposito, il prossimo obiettivo strategico sul quale il Parco è impegnato si chiama “Carta Europea per il Turismo Sostenibile (CETS)”, un percorso che implementa lo strumento operativo per la gestione del turismo nei Parchi, integrando il “Marchio di Qualità” già avviato in questi mesi. Ovverosia una strategia per lo sviluppo turistico rispettoso delle risorse naturali, culturali e sociali e che contribuisca allo sviluppo economico e sociale delle comunità residenti in armonia con le aspettative dei visitatori.
Fusse che fusse la volta bona?