Ciao, mi chiamo Elena*, Yume in arte. Molti di voi non mi conosceranno molto probabilmente, ma il messaggio che voglio trasmettere è indirizzato a tutti, poiché si tratta di crescita personale mia e vostra. È molto importante per me che tutti siano al corrente di ciò, non tanto per egocentrismo quanto perché quel che ho vissuto io in questi mesi non debba viverlo più nessun altro.
Partiamo però dall’inizio, dal problema di fondo, che ha messo le radici all’interno del mio corpo e ha lasciato crescere quella pianta velenosa nel mio cuore che mi ha portato ad assentarmi per gran parte dell’anno scolastico di quarta liceo: fin da quando ho memoria ho sofferto di emetofobia (ossia, la fobia di vomitare o di vedere altri che vomitano), anche se sono riuscita a dare un nome a questa fobia solamente da poche settimane. Da piccola non sapevo cosa avessi, ma ogni giorno piangevo per la paura di vomitare. Nessuno sapeva che fosse qualcosa di simile anche per colpa mia, che da bambina quale ero mi esprimevo solo con un “mi fa male lo stomaco”, senza dire altro, piangendo e basta divorata dalla paura. Crescendo, in famiglia mi hanno aiutato a capire che non era lo stomaco a “fare male”, ma che era la mia testa che, a causa della mia paura, mi metteva in agitazione, e così per diversi anni ho imparato a controllare questa fobia, che ancora pensavo fosse una cosa da “bambini”, che crescendo sarebbe scomparsa. Ma, ahimé, mi sbagliavo.
Nell’aprile 2017, nell’ultimo giorno di gita scolastica, ebbi il primo attacco di panico a causa dell’emetofobia, che fortunatamente passò nel giro della mattinata anche grazie all’aiuto di una mia compagna di classe e di stanza che mi è stata vicina in quei momenti, dei professori e del supporto di mia madre al telefono, e di tanto, tanto autocontrollo. Pensavo che fosse un caso, che sarebbe finita lì, ma non è stato affatto così.
I mesi restanti di scuola li feci serenamente, l’estate fu fantastica, ma a settembre ebbi un nuovo attacco di panico, durante la notte passata a casa di una cara amica, prima che iniziasse la scuola. Anche quella volta, con l’aiuto suo, della persona che adesso è il mio ragazzo, e di mia madre (che mi sgridò per averla svegliata nel cuore della notte per qualcosa di simile, e nei suoi panni al tempo le avrei dato anche ragione), ma soprattutto con l’aiuto di me stessa e di tanto autocontrollo, di una ripetizione continua di “sto bene, sto bene, sto bene…” riuscii a calmarmi.
Per un altro mese la situazione fu tranquilla, ma nulla fu più lo stesso…
La sera iniziai ad aver paura di andare a dormire, perché spesso mi svegliavo la notte agitata o molto tesa, alcune di queste notti avevo anche degli attacchi di panico senza però ancora sapere che fossero realmente quelli. La situazione non fece altro che peggiorare, ogni giorno che passava, e dall’inizio del 2018 in particolar modo questa fobia iniziò a condizionare in maniera pesante la mia vita.
Mi resi conto che, per la mia fobia di vomitare, oltre alla già presente paura di dormire iniziò a venirmi la paura di mangiare, perché nella mia testa si era innescato un meccanismo: “Se io non mangio non posso vomitare”, e la sensazione di fame iniziò quasi a essere qualcosa che cercavo più spesso, perché ero consapevole di non avere nulla in corpo che avrei potuto buttar fuori. In quel momento, quando confessai di avere paura di mangiare, mia mamma mi portò dallo psicologo; feci la prima seduta a fine gennaio, prenotando la successiva a distanza di un mese. Ma era già troppo tardi: gli attacchi di panico, che prima era qualcosa che accadeva qualche volta la notte, erano diventati un appuntamento giornaliero, potevano capitare a qualunque ora, che fosse la mattina appena sveglia, in pieno pomeriggio o nel cuore della notte. Svolgere ciò che faceva una persona normale era diventato estremamente difficile, come il semplice frequentare la scuola: iniziai a fare più assenze e a uscire prima.
Nella seconda settimana di febbraio, quando il mio ragazzo scese da Torino per stare con me qualche giorno, ci fu un altro episodio che mi ha segnato profondamente, ma prima di raccontarlo facciamo un passo indietro, tornando agli inizi del 2018.
Ho avuto l’immenso piacere di incontrare il mio ragazzo, di vederlo per la prima volta fuori da uno schermo, la persona che mi è stata più accanto in tutto questo tempo, anche nel cuore della notte, durante le ore scolastiche, ogni volta che avevo bisogno di lui. L’ultima sera che restava siamo tutti insieme andati a cena al ristorante giapponese, essendo amanti del sushi. La serata si concluse nel peggiore dei modi: quando andai in bagno sentii chiaramente qualcuno vomitare nella porta affianco. Da quel momento fino a tarda notte ebbi attacchi di panico, che mi portarono ad avere la paura di mangiare fuori.
Torniamo ora al mese di febbraio, il mio ragazzo torna e proviamo ad avere il nostro primo appuntamento da soli, sempre nello stesso ristorante: mi bastava il pensiero di andare lì per agitarmi, e anche quella serata fu un disastro. Ebbi un nuovo attacco di panico, il primo di una lunga serie che avrei avuto quella sera per cinque ore consecutive, e il mio primo attacco di rabbia. È da quel giorno che non mangio sushi, e da quel giorno non solo iniziai ad avere paura del cibo, ma iniziai a odiarlo proprio, a ridurne drasticamente le porzioni fino a mangiare il minimo indispensabile, a saltare pasti, continuando a cercare quella sensazione di fame che sembrava placare per un po’ le mie ansie.
Alla fine di febbraio cambiai psicologo, perché un appuntamento mensile non avrebbe risolto niente, e iniziai a essere seguita da una privata, con appuntamenti settimanali.
Andiamo adesso al mese di marzo, precisamente al giorno 10: facevo parte di un progetto teatrale, il Festival Dantesco, e quel giorno vi erano le prove generali che non riuscii a fare per colpa di diversi attacchi di panico avuti nella giornata. Cedetti così le mie parti a due ragazze che facevano il progetto insieme a me e lasciai loro un mio dipinto per aiutarle, e per me quella fu un’enorme sconfitta: avevo permesso alla mia fobia di portarmi via un qualcosa che amavo fare.
Ma la cosa peggiore accadde quella notte, tra il 10 e l’11 marzo. Tornare a casa fu devastante la sera, continuai ad avere attacchi di panico sempre più violenti, urlai fino a sentire la gola bruciare e non riuscii neanche ad arrivare a casa: mi fermai fuori sulla strada, in preda ai brividi del freddo e della paura, e a urlare come una disperata nel tentativo di calmarmi, finché non mi venne somministrato un ansiolitico che, nel giro di qualche minuto fece effetto, riuscendo a farmi tornare a casa. In seguito a quanto successo quella notte, iniziai ad avere paura della macchina, di viaggiare e di stare fuori casa. Il giorno seguente, preoccupato per me, il mio ragazzo scese da Torino per qualche giorno, riuscendo per un po’ a placare quell’inferno che stavo vivendo.
Passiamo adesso ad aprile, fine vacanze di Pasqua. Il primo giorno di rientro a scuola feci solamente un’ora e mezza, che passai fuori dalla classe con un attacco di panico, e da quel giorno ho smesso di andare a scuola, iniziando a temerla come temevo qualsiasi altra cosa. Inoltre smisi di fare il laboratorio teatrale che portavo avanti da tre anni con le scuole dei comuni a causa di un altro attacco di panico avvenuto durante una giornata di prove.
Ero stanca, stavo rinunciando a tutto, non riuscivo più a fare niente, mi sembrava quasi di impazzire.
Un’altra notte, con diversi attacchi di panico violenti dalla sera fino a tarda notte fu messa a tacere solo dopo aver chiamato il 118 e dopo avermi somministrato un calmante per endovena, che mi lasciò stordita per tutto il giorno seguente. A me sembrò quasi il paradiso. Da quel giorno, mi misi nelle mani di un neurologo che ritenne necessario prescrivermi calmanti e antidepressivi. I medicinali che prendevo per stare tranquilla continuavano ad aumentare, da chimici a naturali a omeopatici, e ancora la situazione non sembrava migliorare, nonostante tutto il supporto psicologico e farmacologico.
Una mattina mi rifiutai sia di bere che di mangiare, mi portarono al pronto soccorso per cercare di risolvere anche stavolta il mio problema, e dopo un paio di flebo di calmante e due fisiologiche per ciò che non avevo bevuto e mangiato potei tornare a casa.
Poco a poco tentavo di continuare a mangiare, di riprendere in mano la mia vita, ma non riuscivo.
Finché, un giorno, qualcosa non scattò: 7 maggio a mezzanotte e mezza.
Premetto che nei momenti dei peggiori attacchi di panico il pensiero che avevo più spesso era quello del suicidio, perché ero stanca della situazione che stavo vivendo e avrei preferito la morte a una vita in quelle condizioni.
Pochi giorni prima, iniziai a guardare la serie tv “13”, sapendo che forse mi sarebbe stata d’aiuto per cambiare la mia visione del suicidio, e questo riuscì a farmi fare, dopo mesi, il primo passo. Alla fine di quella serie tv, i pensieri suicidi non mi sfiorarono più. Il 6 maggio inoltre, vidi in televisione una testimonianza di una giovane ragazza di 23 anni, emetofobica come me a cui era stata diagnosticata l’anoressia perché, con lo schema del “se non mangio non vomito” era arrivata a pesare 37 chili. Mi arrabbiai, i medici non avevano capito affatto che l’anoressia era solo una conseguenza del vero problema che ha molte sfaccettature. Lei, per esempio, non aveva ansia o attacchi di panico, evitava semplicemente il problema non mangiando. Durante l’estate passò il tempo con la borsa dell’acqua calda sulla pancia, perché le avevano detto che aiutava a digerire, e ciò le portò ad avere ustioni su tutto l’addome. La sua situazione mi fece fare il secondo passo, che fu un semplice pensiero, ma che cambiò completamente la mia vita da quel momento: “Non voglio arrivare a quelle condizioni. Voglio smettere di stare male. Voglio tornare a vivere”.
Il giorno dopo, tornai a scuola a salutare la mia classe, a raccontare loro quanto successo, e fu un altro passo in quel buio tunnel. Fu come svegliarsi da un incubo, sentivo che qualcosa era cambiato. L’ansia iniziò a diminuire poco a poco, gli attacchi di panico pure, i calmanti da prendere al bisogno passarono da due/tre al giorno a uno ogni tanto. Iniziai a programmare le interrogazioni finali con studio individuale a casa per non perdere l’anno, stamattina (22 maggio) ho fatto la terza, e il mio calendario di interrogazioni terminerà il 5 giugno, continuando a lottare in modo attivo ogni giorno, cercando di fare ciò che amo.
Un altro traguardo fu andare a salutare il gruppo di teatro e raccontare anche a loro la mia storia, per trasmettere un messaggio importante che sto cercando di trasmettere anche qui.
Bisogna che sia chiara una cosa: non fate i miei stessi errori, non aspettate, non lasciate crescere quella pianta velenosa dentro di voi, estirpate le radici non appena queste si scavano il loro spazio all’interno del vostro corpo. Al primo attacco di panico toglietevi subito dalla testa il pensiero “è stato solo per stavolta, non accadrà di nuovo” perché potreste sbagliarvi. Accadrà di nuovo, finché non imparerete la lezione, accadrà ancora e ancora, sempre con più frequenza. Al primo attacco di panico rivolgetevi da subito a uno psicologo, con una mente lucida risolverete molto prima i problemi e riuscirete a maneggiare meglio le armi che vi forniranno.
Voglio poi assicurarvi che da questa situazione si esce, ma solo se siete voi a volerne davvero uscire, finché vi crogiolate nel dolore e non agite di vostra volontà la situazione non si risolverà. Ognuno ha bisogno degli stimoli giusti, e prima o poi questi arrivano, bisogna resistere fino ad allora, ma sempre con l’aiuto psicoterapeutico al primo segnale, dal primo attacco di panico, anche se sembra una sciocchezza o qualcosa che non possa accadere di nuovo, fatelo. Rivolgetevi da subito a uno specialista.
Voglio poi dirvi un’ultima cosa, che per me è molto importante e per cui avrò bisogno dell’aiuto di tutti voi: l’emetofobia non è un caso raro che accade a qualcuno e basta, si tratta di un problema che hanno molte più persone di quanto si creda, ma non è diagnosticato come lo sono problemi come l’anoressia o la bulimia.
Ho bisogno che venga sparsa la voce il più possibile affinché venga riconosciuto come un vero disturbo con tante sfaccettature, che può manifestarsi con attacchi di panico e ansia continua, o con il rifiuto di mangiare e sfociare poi in un’anoressia o magari anche in altri modi che fortunatamente non ho avuto modo di sperimentare. Ho bisogno che la mia storia venga ascoltata, per proteggere le persone che soffrono di questo problema ma non sanno di cosa si tratta, per le persone che sanno di soffrirne ma non sanno come uscirne, e per far sì che venga riconosciuto come un disturbo. L’anoressia può portare alla morte come la può portare l’emetofobia… il giorno in cui mi rifiutavo di mangiare e di bere, soprattutto di bere, avevo le ore contate.
Si tratta di un problema più grave di quanto possa sembrare se questo prende una brutta piega, per questo voglio che tutti sappiano quanto accaduto così che nessuno commetta i miei stessi errori.
Vi prego, chiedete da subito aiuto, non aspettate, perché ogni giorno in più che passa senza fare niente è un giorno in più che lasciate al vostro nemico.
E vi assicuro che da questo problema ne uscirete: il vostro obiettivo iniziale non deve essere guarire dall’emetofobia, a cui potrete pensare poi successivamente, la cosa più importante è imparare a controllarla, a non lasciare che la fobia condizioni la vostra vita, non dovete permettere alla fobia di privarvi di ciò che più amate, come ha fatto con me in questi mesi passati. Non abbiate paura di parlarne con uno psicologo, non abbiate paura di dover prendere dei farmaci, non vergognatevene, perché sono le armi giuste per vincere le battaglie e la guerra.
Io mi sto rialzando poco a poco, con l’aiuto del mio ragazzo, della mia famiglia, dei miei amici. Tutti possono rialzarsi e imparare di nuovo a camminare, a vivere.
Vi prego di condividere e raccontare la mia storia, parlatene, fate in modo che si sappia, che questo problema venga riconosciuto.
Ma soprattutto, vi prego di non smettere mai di lottare, qualsiasi sia il vostro problema o la difficoltà che state affrontando.
Non limitatevi a sopravvivere, il tempo perso non tornerà indietro, la vita deve essere vissuta a pieno, fate ciò che amate, non permettete a niente e a nessuno di portarvi via la vostra felicità, non permettetelo neanche a voi stessi. Combattete. So che vincerete.
(Sono Elena*, una ragazza di quasi 18 anni. Mi ritengo una persona creativa poiché amo scrivere, disegnare e suonare; un grande progetto che sto portando avanti adesso è infatti un romanzo illustrato scritto a quattro mani con il mio ragazzo, è la storia che ci ha uniti fin dall’inizio e che mi ha permesso di non mollare mai nei mesi passati, estremamente importante per me e per lui).
Il disegno che illustra questo articolo è stato realizzato da Elena.