Diciamocela tutta. La comparsata di papa Francesco a Nomadelfia è stato più un evento coreografico e mediatico che altro. La narrazione ha preso il sopravvento sulla sostanza, e tutto s’è risolto in un grande racconto dello stato d’animo di chi era sui prati nomadelfi nell’attesa messianica d’incrociare con lo guardo la papamobile e il suo carismatico inquilino. Le cronache locali hanno fotografato fedelmente il clima da happening fideistico che pervadeva i convenuti in fervente attesa. Che come tutte le attese spasmodiche si è risolta nient’altro che nell’attesa.
Un po’ la dinamica che presiede alle apparizioni di divi, cantanti, calciatori, youtuber, influencer……papi. Declinazione contemporanea dell’intuizione avuta nel 1964 da Marshall MacLuhan: «il medium è il messaggio». Francesco d’altra parte è uomo di comunicazione, oltre che di sostanza, e nell’oasi verde alle spalle di Batignano ha ben interpretato il cliché. Niente di trascendentale a un occhio clinico, ma uno spettacolo ben orchestrato. Nonostante la ristrettezza dei tempi – un’ora e mezza tutto compreso – con le tappe forzate di una scaletta incalzante in vista del catapultamento e Loppiano, nella “città” dei Focolarini, e del precipitoso ritorno alla casa madre, a Roma.
Blitz mediatico a parte, però, papa Francesco qualcosa su cui riflettere l’ha detto eccome, a ben guardare. Un po’ nascosta nelle pieghe di un discorso molto rivolto alla comunità cristiana che lo ha ospitato, ovviamente encomiastico nei confronti di Don Zeno e della fraternità di Nomadelfia. Come si conviene in occasioni simili.
Qualcosa di sorprendente, preceduto da un’introduzione abbastanza ovvia: «di fronte alle sofferenze di bambini orfani o segnati dal disagio – ha sottolineato il papa nella sua allocuzione – Don Zeno comprese che l’unico linguaggio che essi comprendevano era quello dell’amore e seppe individuare una peculiare forma di società dove non c’è spazio per l’isolamento e la solitudine ma vige il principio della collaborazione tra diverse famiglie dove i membri si riconoscono fratelli nella fede». Omaggio dovuto a Don Zeno. Comprensibilmente, anche da parte di chi, come chi scrive, è fortemente critico sull’esito educativo della presa in carico di orfani e ragazzi con disagio, in conseguenza dell’isolamento in cui vivono rispetto al mondo reale e dei presupposti didattici che stanno alla base della loro formazione.
Tuttavia, nel rispetto di un approccio non condiviso, quello che ha colpito nell’intervento di Francesco è stato il passaggio successivo. Là dove ha specificato che a Nomadelfia «in risposta a una speciale vocazione del signore si stabiliscono legami ben più solidi di quelli della parentela». Specificando poi che «viene attuata una consanguineità con Gesù» e che «questo speciale rapporto viene manifestato anche nei rapporti reciproci tra le persone, tutti si chiamano per nome mai con il cognome e nei rapporti quotidiani si usa il tu».
Ora se le parole hanno un senso – e a maggior ragione per un papa è difficile pensare che non sia così, tanto più per questo papa – dire che a Nomadelfia si sono stabiliti «legami ben più solidi di quelli della parentela» significa dire che i legami parentali non sono l’unico criterio per definire il concetto di famiglia. Il che equivale a legittimare la famiglia “non tradizionale”, diversa da quella basata prevalentemente se non esclusivamente sui “vincoli” di sangue e sulla genitorialità biologica. Significa, altresì, riconoscere rilevanza ai legami e ai determinanti sociali nella costruzione della famiglia. Una roba piuttosto scontata per un non credente o un laico, abbastanza rivoluzionaria se proferita da un papa cattolico.
Se questo configuri o meno una sorta di “regime speciale” per Nomadelfia rispetto a quel che vige come regola aurea all’interno della comunità cattolica, è cosa al di fuori delle capacità di esegesi dello scrivente. Tuttavia le conseguenze logiche delle parole pronunciate a Nomadelfia dal papa, potrebbero essere rilevantissime rispetto alla dottrina della Chiesa. All’interno della quale pare evidente esserci un confronto piuttosto acceso tra conservatori e innovatori anche relativamente alla revisione dell’idea di famiglia. E di molte altre cose che ridefiniscano il ruolo della Chiesa in relazione alla modernità. Se così fosse davvero, ci sarebbe sinceramente da gioirne anche da altre sponde. Perché nel rispetto di punti di vista diversi, ci sarebbero finalmente le condizioni per evitare contrapposizioni sterili.
Nel frattempo, peraltro, nel mondo reale, la cosiddetta famiglia tradizionale perde progressivamente terreno, e si vanno sempre più diversificando le “formazioni” familiari, ben oltre la classica famiglia di fatto. Anch’essa oramai quasi un residuato sociologico incapace di rappresentare la molteplicità delle relazioni basate sulla solidarietà fra le persone. Evoluzione che a seconda dei legittimi punti di vista può sfociare in un esito positivo o negativo, ma che costituisce un dato oggettivo. Non a caso già da un decennio fotografato dall’Istat, che ha codificato numerose tipologie di famiglia.
Poi ci sono anche quelli come il sindaco di Sorrento che, d’accordo con un fratacchione locale, interdice alle unioni civili tra persone omosessuali il chiostro di San Francesco di cui il Comune è proprietario. E naturalmente lo fa «per rispetto» ai monaci francescani che li nei pressi hanno le loro celle. Insomma, il mondo è bello perché vario. E per fortuna nella Chiesa il dibattito è aperto.