Cos’hanno in comune le chiusure dello store Media World dell’Aurelia Antica e del punto vendita Old Wild West a Grosseto? Ma potrebbero essere stati negozi di Follonica piuttosto che di Orbetello.
Apparentemente niente. Due tipologie merceologiche diverse, due contesti urbani differenti: all’interno di un centro commerciale il primo, in un tratto di via Aurelia ad elevata concentrazione commerciale il secondo. Ma è solo apparenza, appunto. Perché, ad esempio, si tratta di due punti vendita riconducibili a catene nazionali. Perché sono marchi della media e grande distribuzione. Perché, soprattutto, entrambe le chiusure sono il sintomo grave del virus che sta per inoculare anche i santuari della grande distribuzione organizzata. I centri commerciali di medie e grandi dimensione, dove per ora, almeno, sembrano al sicuro solo le catene del comparto alimentare.
Dopo l’onda d’urto che da almeno un paio d’anni negli Usa – all’interno dei centri commerciali come Wallmart – sta facendo strame dei punti vendita delle catene nazionali di moda, tecnologia, sport e benessere, la tempesta perfetta potrebbe presto abbattersi sui centri commerciali italiani. Complice il debordare del commercio elettronico, con i portali online che menano le danze macinando record di transazioni un mese dopo l’altro. Anche se c’è dell’altro.
In parallelo, intanto, corre la crisi del commercio fisso tradizionale e di vicinato, soprattutto nei centri storici delle città. Una sindrome da asfissia che si alimenta della spirale di prezzi alti dei fondi commerciali associata al cambio di direzione nelle modalità di acquisto da parte dei consumatori. A registrarlo in modo impietoso la recentissima analisi del centro studi di Ascom-Confcommercio sulla “Demografia d’impresa nei centri storici italiani”, stando alla quale nei 110 capoluoghi di provincia e nelle dieci più grandi città non capoluogo nel decennio 2008-2017 sono scomparsi 62.748 esercizi commerciali; il 10,9% del totale di quelli presenti nei centri storici. Un dato coerente con quello di Confesercenti Grosseto che nelle passate settimane ha denunciato la chiusura del 20% delle attività in provincia.
C’è allora una chiave di lettura che spieghi questa crisi generalizzata del commercio, che investe Gdo, centri commerciali e commercio tradizionale? Pur nelle diversità che caratterizzano ogni canale distributivo?
Al di là della potenza di fuoco del commercio on line, dato oramai acquisito e ampiamente indagato, ancora una volta può essere utile sbirciare oltre Oceano. Perché quel che succede là, prima o dopo transuma in Europa. E con gli adattamenti al nostro stile di vita, presto succederà anche in Italia. All’inizio nelle grandi città ma poi, inevitabilmente, anche in provincia.
Negli Usa, infatti, quel che avanza in modo inequivoco è la strategia del cosiddetto “omnichannel”, modalità di acquisto fortemente orientata dalla volontà dei consumatori, che impatta sull’organizzazione tradizionale del commercio: acquisti, magazzino, impiego e selezione delle commesse.
Di fatto i negozi si stanno trasformando in showroom integrati con le vendite online. Per cui, per avere un’idea, il consumatore tipo prova un paio di scarpe in un negozio, ci pensa su e le acquista di notte online. Gli arrivano a casa con il corriere, ma si accorge di non aver fatto la scelta giusta. Senza doversi sorbire la procedura per rispedirle via corriere, esce e le va a riconsegnare nel primo showroom/negozio che vende quel brand, oppure una volta lì ne compra altre. Un rovesciamento di prospettiva che con ogni evidenza metterà in crisi gli attuali modelli organizzativi del commercio. Soprattutto in un Paese conservatore come l’Italia.
Questa palingenesi del commercio passa per il “pacco net-à-porter”, ovverosia la merce che si sposta a cavallo tra la rete e lo showroom/negozio modificando radicalmente l’approccio alla shopping experience. Declinazione iper-democratica del consumatore in grado di scegliere liberamente come e quando acquistare.
Esempio concreto di quel che potrebbe succedere molto velocemente è la sala operativa di Zara, in Galizia, dove uno schermo gigante dà l’indicazione just in time di quali siano i capi più venduti nei punti vendita in giro per il mondo, con tanto di analisi sulle tendenze. Una visione tecnologica che potrebbe evocare il grande fratello di Orwell, ma allo stesso tempo essere consumer friendly.
Probabile quindi che le botteghe cui siamo abituati molto presto si trasformino in uno spazio multifunzionale di incontro, scambio, esposizione e prova delle merci di più variegata natura. D’altra parte, dice il proverbio, «in compagnia prese moglie un frate», figurarsi se non si compra più volentieri. A Milano e Roma già qualcuno ci sta provando. Un caso di prove tecniche d’integrazione tra rete e negozio, ad esempio, lo fornisce qualche store multi-brand della calzatura, che applica una tariffa di prova – test fee – a chi entra solo per capire quale numero di un determinato tipo di scarpe ordinerà successivamente sul web, aspettando il prezzo scontato più conveniente.
Ecco perché, in definitiva, quel che succede a Kansas city – Grosseto in senso bianciardiano – con MediaWorld e Old Wild West va guardato con attenzione, andando oltre gli stereotipi cui siamo avvezzi. Potrebbero infatti essere i primi indizi della rivoluzione prossima ventura.