L’argomento è spinoso, quindi merita chiarezza estrema. Portare i cani antidroga dentro le classi è un errore madornale: una scelta che rischia d’essere il canto del cigno della missione educativa della scuola. Perché configura la delega ai Carabinieri – che si occupano di repressione – della funzione di trasmettere ai ragazzi la capacità critica per assumersi la responsabilità di scegliere cosa sia giusto o sbagliato fare. Ufficio che dovrebbero svolgere gl’insegnanti. Al punto che si concretizza la classica eterogenesi dei fini, per cui il messaggio educativo destinato agli studenti è la minaccia della pena (la segnalazione alla Magistratura) a discapito del valore della scelta consapevole. Non è questione di tecnica didattica, ma attiene al Dna dell’istituzione scolastica.
Quello che è successo ad una scuola e al convitto scolastico di Arcidosso nella giornata di mercoledì, quindi, è gravissimo. Non sarà popolare, forse, ma va detto. I cani poliziotto a zonzo fra i banchi delle classi di fronte ai ragazzi e all’interno delle camere del convitto, sono la rappresentazione plastica dell’impotenza dell’istituzione che dovrebbe presiedere all’educazione. Certamente un’esperienza emotivamente traumatica per molti studenti, ma soprattutto un vulnus in termini simbolici alla credibilità ai loro occhi del sistema formativo del quale dovrebbero essere protagonisti, non comparse.
Lo show ad uso e consumo delle telecamere, fra l’altro, dà la sgradevole e netta sensazione che chi nella scuola ha ruoli dirigenti sia oramai ostaggio della spettacolarizzazione mediatica. Convinto – altro esempio di eterogenesi dei fini – che il mezzo sia il messaggio. Da questo punto di vista, purtroppo, l’esibizione degli incolpevoli cani antidroga è molto funzionale a placare ansie e insicurezze di insegnanti e genitori, per nulla a un percorso di maturazione consapevole di adolescenti in cerca di sé stessi.
Ovviamente non si tratta di legittimare o assecondare il consumo di droghe leggere fra gli studenti, ma casomai di non dare definitivamente per persi ragazzi e ragazze che d’ora in poi – tanto più in una comunità piccola come Arcidosso – dovranno convivere con lo stigma incancellabile dello “spacciatore”. Pagando ben oltre la loro incoscienza di adolescenti, più o meno problematici che siano. Peraltro, se la scuola è uno spazio educativo dove s’impara a essere persone e cittadini responsabili, sviluppando il senso critico e costruendo la propria personalità, c’è anche da chiedersi che idea si saranno fatti della scuola coloro che sono estranei al consumo di sostanze. E che tipo di relazioni avranno d’ora in poi con i loro coetanei rei di essere consumatori.
Questa vicenda è stata gestita in modo diseducativo anche perché, in sostanza, se si mandano i figli a scuola per imparare, la lezione che gli studenti hanno appreso è che la scuola è un posto insicuro. Che, oltretutto, presidiato dalla “barriera” dei cani poliziotto, diventa un simbolo dell’ordine costituito e quindi bersaglio privilegiato della trasgressione. Un approccio deviante che potenzialmente rischia d’innescare la spirale devastante già vista in molte scuole statunitensi: guardie giurate e metal detector ai cancelli d’ingresso, telecamere nei bagni e nei corridoi. Senza peraltro che il problema della violenza e del degrado delle relazioni umane sia stato minimamente intaccato. Scenario da incubo al momento impensabile, ma per nulla irrealistico.
Possibile che ad Arcidosso (ma varrebbe ovunque in provincia), non nel Bronx de “I guerrieri della notte”, non si sia stati in grado di trovate altre strategie educative per affrontare con più serenità ed efficacia i problemi generati da qualche ragazzotto che fumava canne o coltivava marijuana?
In definitiva, su questa come su altre scelte educative, a confrontarsi sono due visioni antitetiche del ruolo della scuola. Quella conservatrice, dall’approccio autoritario, che identifica la scuola nell’istituzione cui è demandato il compito di riprodurre equilibri e visione tradizionali della società. E quella progressista, di matrice illuminista, che punta sulla responsabilizzazione degli studenti chiamati a decidere come comportarsi attraverso il confronto non dogmatico.
Il filosofo Karl Popper sosteneva che «l’intolleranza nei confronti dell’intolleranza stessa, è condizione necessaria per la preservazione della natura tollerante di una società aperta». Traslando il concetto, oggi in termini educativi nella scuola c’è bisogno di essere intolleranti con l’intolleranza nei confronti del diritto a commettere errori nel percorso di formazione dei giovani. Perché l’autoritarismo non è mai sinonimo di autorevolezza.