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La condanna penale non risolve tutto. La tristissima vicenda dell’asilo nido “Albero azzurro”, con i maltrattamenti subiti da bambini che al momento dei fatti contestati nel processo avevano dai 6 ai 36 mesi, è il paradigma delle troppe cose che non vanno nei nostri comportamenti sociali. E Grosseto non sfugge alla regola.
Due titolari condannate a due anni e due maestre a un anno e mezzo. Con il rito abbreviato e la sospensione condizionale della pena. Un’altra maestra e la cuoca che avevano già patteggiato la pena. Tutte condannate per maltrattamenti con l’obbligo di risarcire le spese legali alle 34 parti civili. Assolte invece rispetto all’ipotesi di reato di abbandono dei minori. Fin qui nulla da commentare, il processo ha fatto il proprio corso e i colpevoli sono stati condannati ai sensi della legge. E una volta tanto tutto si è concluso in tempi ragionevoli.
Così come c’è poco da commentare rispetto a quello che è stato definito l’indegno metodo educativo “Azzurriano”, dal nome della titolare dell’asilo. Esercitarsi in astratto su considerazioni da bar relative alla psicologia di chi seguiva certe pratiche, lascia sinceramente il tempo che trova. Persone devianti rispetto a standard comportamentali civili e corretti ce ne sono sempre state, ce ne sono e ce ne saranno. L’unica strada è prevenire e reprimere. Punto.
Molto da dire c’è invece sull’enfasi lievitata intorno a questa vicenda e al circo mediatico di dichiarazioni e atteggiamenti sopra le righe che è stato allestito. Da parte di molti.
Certo, i reati ai danni di bambini tanto piccoli suscitano una legittima indignazione e repulsione. Non c’è alcun dubbio. Ma onestamente le marce dei genitori in corso Carducci con tanto di striscioni – del tipo “vogliamo essere amati, non maltrattati” – e dichiarazioni di pubblica delusione nei confronti della città che stava a loro dire dimenticando le vittime, fanno parte di un brutto repertorio di spettacolarizzazione del dolore e dei processi penali al quale sarebbe bene non abituarsi mai. E d’altra parte, per fortuna, alle due o tre marce in questione non c’è stata nessuna partecipazione, se non quella dei promotori.
Molto da dire c’è anche sull’atteggiamento di certa politica politicante, che in un primo momento ha tentato di cavalcare l’onda dell’indignazione, provando a forzare la mano e agitando la chimera dei soldi pubblici per l’assistenza legale alle famiglie coinvolte in questa brutta vicenda. Salvo poi ringambare una volta chiarito che la cosa non era fattibile, e che la strumentalizzazione rischiava di ritorcerglisi contro.
Così come molto da dire ci sarebbe sulla scelta della Procura della Repubblica di rendere pubblici i video dei maltrattamenti dei ragazzini, cambiando repentinamente atteggiamento rispetto all’approccio sobrio e garantista della prim’ora. Chiaramente motivato dalla “necessità” di dare qualcosa in pasto all’indignazione della “piazza”. Una mossa che ha alimentato il clima forcaiolo e le dichiarazioni giustizialiste. Assecondando così l’isteria collettiva dei commenti volgari e aggressivi pubblicati su facebook, con tanto di pseudo «iene maremmane» (come se non bastassero quelle nazionali) sentitesi in dovere di postare in rete un video che prendeva di mira una delle titolari dell’asilo. Versione casereccia della più classica gogna mediatica. Tutti episodi che hanno portato a querele per diffamazione, con futuri e probabili strascichi giudiziari.
E anche molto ci sarebbe da dire sull’abitudine scellerata di giocare a fare i giudici, discettando in modo dilettantesco di adeguatezza o meno della pena rispetto al reato. Non avendo altro parametro di riferimento che i propri gusti personali. Un giochino al quale, pur sulla base di competenze specifiche, non disdegnano di partecipare nemmeno gli avvocati. Che per compiacere i propri clienti, e la piazza, non sono mai soddisfatti delle pene inflitte dai giudici: sempre troppo o poco severe. A seconda della parte che giocano in commedia.
Molto, infine, ci sarebbe da dire rispetto allo sguardo con cui i media ritraggono gli episodi di cronaca nera. È una questione a sé stante, vecchia quanto la carta stampata. Se sia giusto raccontare tutto fino in fondo, fino ai dettagli più scabrosi, o se sia più opportuno filtrare la notizia, condividendo un codice deontologico che in teoria c’è ma che quasi sempre salta. Una cosa è tuttavia certa: difficile stigmatizzare rancore e aggressività sociale, se nei fatti si fa di tutto per assecondare l’indole forcaiola degli esseri umani. La loro passione per la pruderie e la spettacolarizzazione della violenza. Magari trincerandosi dietro l’alibi che “la gente vuole sapere, e ha il diritto di sapere”.
Già, la fantomatica “Ggente”. A proposito della quale, ancora una volta, torna utile affidarsi alla profondità della saggezza popolare. Perché ricordate che «la gente so’ come le persone. Se un le conosci, sai una sega chi so’».
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