Alzi la mano chi non ha mai avuto a che fare, direttamente o meno, con la necessità di trovare una “badante” per assistere un genitore in là con gli anni o un figlio disabile. E alzi la mano chi non ha trovato difficoltà sia a individuare la persona giusta, sia nella gestione del rapporto di lavoro sotto il profilo economico e fiscale.
Quella dell’assistenza alle persone non autosufficienti, d’altra parte, sta diventando una vera e propria emergenza nazionale. E in modo particolare in Toscana. Insieme alla Liguria la regione più vecchia del Paese con una quota del 25% della popolazione che ha più di 65 anni. Un problema enorme che ha varie sfaccettature, ma che sostanzialmente viene aggravato dalla presenza di un mercato dell’assistenza anarchico e deregolamentato, nel quale è quasi tutto affidato all’incrocio spontaneo di domanda e offerta di prestazioni assistenziali. Con le famiglie abbandonate a sé stesse, da una parte, e le persone che si dedicano alla cura prive di una qualificazione professionale, dall’altra. Terra di tutti e di nessuno, dove ognuno cerca come può di soddisfare i propri bisogni. Mercato semi-clandestino nel quale a farla da padrone è una disintermediazione selvaggia, le cui inefficienze penalizzano soprattutto chi di assistenza ha bisogno.
Ma qual è la dimensione effettiva del problema? A venirci incontro è l’indagine su “L’eleggibilità dell’Azienda Usl Toscana sud est per la sperimentazione di un fondo sanitario di secondo livello regionale”,
da poco realizzata da Regione Toscana, CoeSo-Società della salute, Simurg ricerche e Fondazione Il Sole Onlus.
Il quadro d’insieme della Toscana ci dice che il 25% dei 3.7 milioni di residenti in regione ha più di 65 anni, mentre gli ultra 85enni sono il 16%. Dato che peggiora nell’area della Usl Toscana sud est – che comprende le tre province di Grosseto, Siena e Arezzo – dove gli ultra 65enni sono il 25,5% e gli ultra 85enni il 17%. Anche l’analisi regionale delle famiglie unipersonali di anziani è sorprendente: 233.000, 3/4 delle quali composte da donne, che rappresentano quasi la metà di questa tipologia familiare in Toscana.
Considerato che Grosseto, Siena e Arezzo sono le province più vecchie, è quindi presumibile che siano quelle dove si riscontrerà nel prossimo futuro la maggiore incidenza di disabilità e non autosufficienza. Quelle in cui la pressione sui caregiver (indice di carico dei grandi anziani e indice di dipendenza anziani) è attualmente più pesante. E dove i problemi non potranno che aumentare.
Pesando il fenomeno della non autosufficienza nella Toscana del sud (Gr-Si-Ar) sono state stimate circa 47.000 persone con limitazioni funzionali (confinamento, difficoltà nel movimento, difficoltà nelle funzioni della vita quotidiana, difficoltà della comunicazione), con 50.373 persone disabili, 24.833 delle quali beneficiarie dell’indennità di accompagnamento (67,1% over 80). Ovvero il tre per cento della popolazione totale, percentuale più alta di tutta la Toscana (media 2,6%). Di questi, gli anziani assisiti nelle residenze sociali assistite (Rsa) nella Usl Toscana sud est sono 2.836, mentre 25.932 usufruiscono dell’assistenza domiciliare.
Spostando l’attenzione sul budget sanitario, socio-sanitario e assistenziale delle famiglie delle tre province di Grosseto, Siena e Arezzo, si scopre che la spesa complessiva “non intermediata” – cioè che non passa attraverso canali formali di gestione della domanda/offerta – ammonta a 690 milioni di euro (64 miliardi in Italia, 4 miliardi in Toscana). Di questi 147 milioni di euro servono a pagare gli stipendi a 9.122 badanti registrate all’Inps e ad altre 11.000 che lavorano in nero (metodo Irs Milano, che stima nel 55% le badanti non ufficiali). Cui si aggiungono 14 milioni di compartecipazione dei servizi sociali comunali (dato 2012, anziani e disabili), 62 milioni di mancato reddito da parte dei caregiver familiari, 2 milioni di agevolazioni fiscali per ausili e dispositivi legati alle condizioni di invalidità, 27 milioni di valorizzazione dei permessi ex L. 104/92 e 8 milioni di trasferimenti assistenziali informali. Insomma una montagna di soldi che le famiglie delle tre province della Toscana del sud spendono per garantire l’assistenza ai propri familiari non autosufficienti, anziani o disabili che siano. Un “tesoretto” che più o meno equivale alla metà di quello che l’Usl Toscana sud est spende per i propri servizi socio assistenziali.
Il problema di fondo, in tutto ciò, è che questa spesa risulta inefficiente e non garantisce davvero la qualità della vita. Né alle famiglie né a chi lavora nell’assistenza. Da una parte, infatti, le famiglie, costrette a fidarsi del passaparola, spesso si trovano in casa persone poco qualificate per l’assistenza. Con il rischio, non infrequente, di trovarsi ostaggio di situazioni molto spiacevoli. In balia di un sistema di offerta delle prestazioni assistenziali organizzato per etnie o nazionalità, che di fatto impone prezzi, prestazioni e personale di sostituzione quando la badante torna per le ferie o altri motivi nel proprio Paese di origine. A questo si aggiunge la difficoltà a far fronte al crescente impegno economico, potendo detrarre dalle tasse solo una parte dei contributi e non l’intera spesa sostenuta per garantirsi l’assistenza. Trovandosi qualche volta coinvolte anche in contenziosi legali sulla quantificazione dei compensi.
L’altra faccia della medaglia, invece, è costituita dalla condizione di sfruttamento di chi lavora, e in alcuni casi dall’imposizione di vere e proprie vessazioni. Perché non è raro che i datori di lavoro, in alcuni casi per necessità, ma anche sfruttando la propria posizione di forza, impongano condizioni draconiane o veri e propri ricatti occupazionali. Fra questi estremi la zona grigia a cavallo fra legalità e illegalità che si compone di una gamma molto ampia di variazioni sul tema. E guardando al futuro è difficile pensare le cose non si complichino ancora. Complice l’accelerazione del tasso d’invecchiamento della popolazione e la contrazione inevitabile del cosiddetto welfare familiare, se non altro per a riduzione dei componenti delle famiglie e della mancanza di figli.
Da qui l’esigenza di trovare presto soluzioni anche solo parziali, almeno in attesa di avere un’organizzazione più strutturata. Perché esperienze come “Pronto badante”, finanziato dalla Regione, cooperative di badanti o enti d’intermediazione della domanda/offerta del lavoro di cura in grado di offrire un minimo di garanzie a famiglie e lavoratori, sono ancora decisamente minoritarie nel caotico mercato informale dell’assistenza.
In assenza di novità organizzative nell’intermediazione, che non potranno che vedere la collaborazione tra soggetti pubblici e privato, e anche di modifiche del regime fiscale che regola il settore dell’assistenza da parte dello Stato, il rischio concreto è che si generi un cortocircuito pericoloso nel rapporto tra famiglie e chi materialmente gestisce il lavoro di cura nelle nostre case. Con tensioni sociali e fenomeni di disgregazione dei rapporti umani che non porteranno nulla di buono. Un problema serio, che riguarda la presa di coscienza da parte della politica ma anche da parte dell’opinione pubblica nel suo complesso.