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Non saranno cancelli, telecamere e “ronde de’ noantri” a sconfiggere il degrado che annichilisce alcuni pezzi di Grosseto. Là dove, rispetto alle enclave urbane mainstream, lo stato di abbandono e la marginalità attirano un’umanità negletta e sofferente. Oppure piccolo spaccio e microcriminalità.
La strada maestra è un’altra. E proprio in questi giorni in città è sotto gli occhi di tutti un parziale ma significativo esempio di come bisognerebbe agire. La riqualificazione estetica e funzionale dell’ex supermercato Unicoop di via Inghilterra ha infatti dato il à a un processo di recupero urbano che a tappe riguarderà l’intero polo dei servizi circoscritto dalle vie Inghilterra e Unione Sovietica. Merito prima di tutto del testardo comitato dei soci coop che ha baccagliato per tenere aperto un negozio di quartiere della cooperativa. Avendo chiaro sin dall’inizio che senza quel servizio di vicinato l’intera zona, già in via di decadimento, sarebbe in poco tempo definitivamente collassata ostaggio del degrado. Merito anche di Unicoop Tirreno che ha ascoltato e investito nonostante il momento difficile, e il recente mega intervento del superstore “Maremà”. Merito di altre realtà che operano nel condominio del centro servizi: da Banca Tema, che lì ha una filiale, al bar ristorante La Pantera Rosa, fino alle Farmacie comunali che stanno spostando accanto al neonato negozio inCoop la sede di una farmacia.
L’azzurro intenso della nuova tinteggiatura è un azzeccato cazzotto nell’occhio nel contesto edilizio circostante tendente al grigio topo. Presto altre realtà commerciali si riqualificheranno e ne arriveranno di nuove. Quando il percorso sarà concluso i residenti del quartiere Pace, zona ospedale, avranno di che essere contenti.
Nel frattempo non sarebbe per niente male il Comune pensasse a trovare aree di parcheggio aggiuntive, a studiare una nuova illuminazione e a migliorare l’arredo urbano. Magari, invece di proporre le solite anonime panchine o fioriere standard attinte al catalogo dell’alienazione urbana, sarebbe il caso di coinvolgere nel restyling i residenti nella zona, gli studenti del Liceo artistico e la Fondazione Grosseto cultura. Che ha un bel know how rispetto alla street art e ai percorsi partecipativi. Abbandonando una volta per tutte le patetiche idee securitarie baste su cancellate, ossessione per le telecamere e altre superfetazioni passatiste figlie dell’idea che la repressione risolva i problemi della vivibilità nei quartieri. Armamentario ideologico che appena pochi mei fa, nel vuoto d’idee, era stato proposto per arginare la presenza di sbandati che si rifugiavano proprio negli anfratti di quel microcosmo cittadino.
A questo proposito, già che ci siamo, va detta con chiarezza anche un’altra cosa. Che attiene all’approccio culturale più complessivo al tema della vivibilità delle città. Le persone cosiddette marginali – che siano senza fissa dimora, adolescenti ostaggi dell’alcool e delle tante sostanze sul mercato, poveri, mendicanti o con disturbi psichiatrici – non possono essere eliminate dalla faccia della terra. E purtroppo nemmeno si possono eradicare del tutto i fenomeni di degrado sociale dovuti a spaccio, microcriminalità e vandalismi vari. C’è un’umanità fuori dalle righe che comunque esiste. Soprattutto nelle città, anche se non solo.
A fare la differenza è l’approccio a come si organizza la convivenza rispetto alla stragrande maggioranza dei “regolari” e allo sguardo che si posa sulla realtà. Telecamere e repressione risolvono una quota minima dei problemi. Ogni telecamera aggiunta sposta solo di qualche centinaio di metri le eruzioni di malessere sociale. Scaricando le tensioni sull’isolato un po’ più in là e su altri gruppi di residenti. In un predace gioco dell’oca le cui stazioni coincidono con gli appuntamenti elettorali. Perché una rassicurante esibizione muscolare su decoro e sicurezza urbana corrobora la performance politica del candidato di turno.
Molto spesso, invece, a rendere la vita più godibile basterebbero il buon seno e un po’ di umana disponibilità. Che è cosa diversa dalla distorta idea di buonismo che va tanto di moda rinfacciare. Basterebbe, ad esempio, istituire unità di strada, finanziare programmi di prevenzione del disagio giovanile, realizzare le “stanze del buco” e dormitori pubblici con punti di presa in carico sociale. Affiancando e non solo delegando tutto alla buona volontà della chiesa o delle organizzazioni di volontariato. Oppure facendo finta di credere che quattro sciroccati con bomberino e anfibi – marginali fra i marginali – possano garantire davvero la vivibilità nei nostri quartieri.
Affrontare il tema complicato, e quindi non riconducibile “ad unum”, della riqualificazione e della vivibilità nelle aree urbane deteriorate, significa in definitiva ragionare sulla socializzazione, sull’educazione civica e sui meccanismi d’integrazione. Riflettere su tante micro azioni diffuse nei quartieri. Come i gruppi di nonni che sorvegliano l’uscita dalle scuole elementari e medie. Il senza fissa dimora a cui si affida la pulizia e la guardiania di un parcheggio. L’iniziativa di animazione e socializzazione nella piazza del quartiere. La realizzazione di un murale. E così via, senza limiti alla fantasia.
Comprensibile che sia più facile, e meno impegnativo, aizzare l’intolleranza o fomentare l’odio su facebook o twitter, al riparo di una tastiera. Ma aggressività, slogan fascistoidi e machismo da operetta non hanno mai portato nulla di buono alle società. Tutt’al più, in tempi recenti, qualcuno si è guadagnato i classici cinque minuti di notorietà. Ma il mondo reale è tutta un’altra cosa.
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