GROSSETO – Il vescovo Rodolfo Cetoloni affida la sue riflessioni ad una nota a commento della nota vicenda che in questi gironi ha riguardato Don Enzo Capitani, direttore della Caritas diocesana, oggetto di pesanti offese sui social network.
Le parole non sono mai neutre. Possono essere belle, brutte, costruttive, distruttive. Possono generare speranza o disperazione.
Ci sono parole che fanno male più di altre, capaci di ferire non solo coloro a cui le rivolgiamo, ma il cuore di una comunità intera.
Certe parole rivolte a don Enzo in questi giorni sono tra queste ultime. Non toccano solo lui, la sua umanità e il suo sacerdozio, ma anche la dimensione ecclesiale e civile del suo impegno.
Egli, infatti, non agisce da se stesso, ma sempre come espressione, in questo territorio, della Chiesa nella quale è prete da circa quarant’anni.
La vicenda che lo ha, suo malgrado, visto coinvolto, potrebbe essere derubricata a triste episodio da dimenticare in fretta, ma preferirei che potesse fornire a tutti noi lo spunto per riflettere con calma sul valore che diamo al nostro linguaggio (non solo verbale) e al nostro modo di essere in relazione, qui e in questo tempo.
Per noi cristiani le parole hanno un peso straordinario, perché abbiamo sicura fiducia nella Parola di vita che ci ha chiamati e salvati. Una Parola che ama, al punto di entrare nella nostra storia facendosi carne.
E’ in quel Cristo Gesù, crocifisso e risorto, è nel suo Vangelo, buona notizia e parola bella donata all’umanità intera, che don Enzo e tutti coloro che si dicono cristiani vivono e provano a modellare la loro vita. Quella Parola che si è fatta uno di noi, entrando anche nelle pieghe più dolorose e contraddittorie della nostra umanità, ci educa a pensare all’altro come a un fratello, mai come a un nemico o a un pericolo.
Chi è credente non può prescindere da questo, non può accantonare l’essere fratello come un concetto vecchio, superato o addirittura ininfluente. E’ un fondamento della nostra dimensione umana, è da valorizzare con scelte coraggiose e con opere coerenti col Vangelo, ma anche in parole che ridicano l’uomo all’uomo, quello che è in se stesso e per gli altri.
Questo fa la Chiesa, questo tenta di fare un prete, questo la Caritas e chi si impegna in essa.
Nessun altro interesse che dire a tutti e ovunque che l’uomo ha questa dignità inalienabile: la dignità di chi è amato da sempre. Soprattutto quando è più debole, più fragile, più esposto alle intemperie della vita.
La carità messa in pratica nasce silenziosamente da qui, non è né buonismo né filantropia. Ma in certi casi essa ha bisogno anche di parole che non la tradiscano, ma anzi la manifestino. Parole da pronunciare con libertà e non nel chiuso delle sacrestie. “Annunciatelo sui tetti!” è l’invito appassionato che Cristo ci rivolge.
La piazza (reale o virtuale che sia) diventa allora uno dei luoghi privilegiati in cui dire parole di Vangelo, specie se, come nel caso attuale, vi sono anni di testimonianza, creatività e riconoscimento da parte della città. Per chi vuole ascoltare e per chi no. Sempre con grande rispetto.
L’auspicio è che episodi come quello accaduto inducano ognuno a non mortificare e impoverire di più il nostro linguaggio. Sennò si ferisce l’umanità che è in ciascuno e si attenta alle relazioni portanti del nostro vivere civile. La Chiesa, comunità cristiana, con la consapevolezza di non riuscire mai ad essere coerente abbastanza, ma anche con la sicurezza di non volersi staccare dalla Radice da cui prende vita, continuerà a dire e a voler praticare l’amore di Dio, che è per ogni uomo.