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Due terzi dei giovani grossetani dicono di non essere mai stati a teatro, e di questi il 67% dichiara di non essere interessato a conoscerlo. A Firenze e Arezzo le proporzioni sono 45% mai a teatro e 54% disinteressati. A Empoli, invece, tre giovani su quattro dichiarano di aver frequentato il teatro almeno una volta.
Sono i risultati di un’indagine Doxa condotta per conto della Fondazione Cassa di risparmio di Firenze, riportati nella sezione premessa e analisi di contesto del bando “Nuovo pubblico”. Emesso dall’istituzione fiorentina per finanziare iniziative di promozione culturale che sperimentino nuove forme di partecipazione, ampliando e diversificando la domanda nell’ambito delle arti performative: teatro, danza e musica.
Eppure a Grosseto, nonostante il contesto poco fertile, l’attività teatrale amatoriale, e in alcuni casi semi professionale, gode di buona salute. Con una dozzina di compagnie aderenti alla Fita (federazione italiana teatro amatoriale) e qualche altra decina meno strutturate sparse in provincia. Alcune rassegne teatrali mature come “Grosseto Ridens” (promossa dalla compagnia di Fabio Cicaloni), “Non ci resta che ridere” (promossa dalla compagnia di Giacomo Moscato), “Il Teatro della scuola” (promossa dal Liceo Rosmini) con una cinquantina di spettacoli allestiti ogni anno e circa 8.000 persone coinvolte. Mondo raccontato dalla trasmissione Palco 9 di Enrico Pizzi in onda su Tv9-Telemaremma. Un arcipelago composito con i limiti gravi di una bassa propensione alla collaborazione e di un antagonismo autoreferenziale. Caratteristiche condivise peraltro con molti altri ambienti grossetani.
Ecco, questo patrimonio diffuso di impegno sociale e creatività – parallelo a quello di altri contesti culturali – potrebbe essere un bacino ideale per le incursioni della Fondazione Grosseto Cultura. Solo che la si facesse lavorare assecondandone la natura di coagulante delle energie creative disseminate in città e nel territorio.
E a questo punto nel ragionamento fa il proprio ingresso prepotente l’attualità, con le recenti dimissioni del fu presidente della Fondazione Francesco Mori. Sulle capacità della persona in veste di presidente c’è molto poco da dire: non ne aveva. E d’altra parte, considerate le sue performance pregresse su facebook, c’era da aspettarsi l’esito scontato delle dimissioni anticipate.
In questi mesi è addirittura fiorito un mercato clandestino di scommesse su quanto avrebbe resistito in quella delicata funzione. Tanto il presidente di una Fondazione culturale dovrebbe essere empatico, collaborativo, entusiasta, al centro di relazioni e capace di reperire risorse. Quanto più costui risultava scorbutico, altezzoso, rancoroso, estraneo alla città, incapace di allacciare rapporti costruttivi. Sprovvisto di know how associativo, si è incaponito a fare altri mestieri a lui stranieri come il grafico – grottesca la vicenda del restyling autografo del logo della Fondazione – o l’organizzatore culturale in competizione con i tecnici della Fondazione. Insomma, dal punto di vista della leadership è stata una tragedia vera. Peccato che questa parentesi funesta abbia compromesso una parte non insignificante del lavoro di lunga lena svolto dalla Fondazione negli anni scorsi, sotto la guida callida – onore al merito – dell’ex sindaco Loriano Valentini. Ferite non insanabili, certo, ma che richiederanno impegno per essere guarite. Perché come icasticamente rappresenta il genius loci maremmano: «ci mette meno una gallina a sparge, che cento a ammontinà».
Infierire sul povero Mori, però, sarebbe davvero riduttivo. Perché il problema vero sta nel motivo per cui la politica ha scelto una persona palesemente incompetente per quel ruolo. Qui le scuole di pensiero che si confrontano in città divergono. C’è chi propende per una guerra tra bande per avere la propria bandierina sulla Fondazione, con la banda vincente che non aveva di meglio da spendere per sostanziale estraneità alla cultura. E chi sostiene che l’assessore alla cultura si è chiamato fuori dal gioco per non scottarsi, sapendo come sarebbe andata a finire e organizzandosi per proprio conto. Come dimostrerebbe la marpionesca organizzazione della bella mostra di Lapo Simeoni “Forever Never Comes”, dislocata al Museo archeologico e nell’area archeologica di Roselle. In definitiva è come se fosse mancato all’appello un nostrale Ius culturae. Un codice condiviso per cui la cultura, bene prezioso per chiunque governi e per qualunque comunità, non fosse ridicolizzata.
Sia come sia, ora è il momento di chiarire le cose. Ovvero il futuro della Fondazione Grosseto Cultura, perché dopo due fallimenti tertium non datur.
L’assessore alla cultura Luca agresti ha detto che la Fondazione continuerà ad esistere. Questo è un bene, ma non potrebbe essere altrimenti: perché senza di essa il Comune andrebbe in crisi per la gestione del Museo di storia naturale e della Scuola comunale di musica Palmiero Giannetti. E perché l’Ente locale non ha nei suoi ranghi figure competenti come Mauro Papa, Andrea Sforzi e Antonio Di Cristofono. Ma soprattutto perché sarebbe un delitto buttare dalla finestra un aggregatore di contenuti culturali che stava iniziando a produrre risultati di qualche valore.
All’assessore, allora, diamo qualche consiglio non richiesto. Il ruolo del nuovo presidente non può più essere equivocato: non deve decidere le mostre e le produzioni culturali in autarchica solitudine, ma cooperare con il Cda e i tecnici da primus inter pares. Deve conoscere la città e il territorio, a differenza degli ultimi due presidenti stranieri in patria. Deve avere nelle sue corde la capacità di costruire relazioni con gli operatori culturali del territorio, ma anche con le istituzioni culturali ‘estere’. Non fermandosi al ponte del Petriolo, a Pescia fiorentina e a Torre Mozza. Soprattutto deve dimostrare di saper captare risorse per la cultura, da non sputtanare per invitare il giullare televisivo di turno – quello è panem et circensem – ma da investire in produzioni culturali originali che valorizzino quel che qui in Maremma di promettente c’è. E ce n’è. E già che ci siamo, sarebbe il caso di retribuirlo, perché l’essere pensionati non è una qualità assoluta né sostitutiva delle competenze.
Non è facile individuare chi abbia un profilo simile. Siamo d’accordo, e c’è anche il rischio politico che un presidente vispo faccia ombra. Se non fosse possibile trovare una figura adeguata, il consiglio non richiesto è che l’assessore Agresti rivesta il ruolo di presidente della Fondazione. Il Comune d’altra parte ne è il maggior azionista.
La situazione è fluida e gli equilibri politici in maggioranza turbolenti. Come si dice in Maremma «ci sta il tordo e la sassata». Auguriamoci per amore della cultura che arrivi il «tordo». Che di «sassate» ce ne sono state anche troppe.