GROSSETO – “Nei rapporti con l’Unione Europea – e di conseguenza – con i Paesi con cui la stessa costruisce rapporti commerciali e di scambio, l’Italia mostra il punto massimo di ‘fragilità’ e subalternità proprio nelle trattative che investono il settore agroalimentare, che spesso diventa merce di scambio di interessi diversi”. Il resto sono chiacchiere e chi si esercita ad affermare cose diverse, seppur da rispettare, ci mancherebbe altro , dovrebbe, magari, essere più attento. Ma questo è solo un consiglio e non un appunto. Ognuno, se ne ha, porta avanti i propri progetti e le proprie idee, noi con tanta umiltà e altrettanta tanta passione, decliniamo quanto mettiamo in campo con coerenza. Sempre”.
Così Marco Bruni, presidente Coldiretti Grosseto che, con il direttore Andrea Renna, ha inteso sottolineare, di nuovo, che il Ceta, il trattato di libero scambio tra Ue e Canada, rappresenta un caso esempio delle condizioni favorevoli che sono state concesse al Marocco per pomodoro da mensa, arance, clementine, fragole, cetrioli, zucchine, aglio, olio di oliva, all’Egitto per fragole, uva da tavola, finocchi e carciofi, oltre all’olio di oliva dalla Tunisia e al riso dal Vietnam e più in generale dal sud est asiatico. L’accordo di libero scambio con il Canada (Ceta) è, purtroppo, solo l’ultima pagina della debolezza italiana. Nel caso del Ceta, balza subito agli occhi il macroscopico trattamento riservato alle importazioni di grano duro canadese: l’accordo azzera infatti strutturalmente tutti i dazi e consente l’entrata ‘libera’ e senza ulteriori controlli di un grano sottoposto a trattamenti di glifosato in pre raccolta (vietati in Italia) per renderne possibile la maturazione in un Paese più freddo come il Canada. Già ora per un caffè si devono vendere 5 kg. di grano, figuriamoci dopo.
L’aspetto economico, con l’eliminazione dei dazi, penalizzerebbe non solo il grano ma anche tutti gli altri prodotti. Infatti, senza dazi spariscono qualità e territori di produzioni a favore solo ed esclusivamente del prezzo. Nel caso del trattato con i paesi Paesi del Mercosur in via di definizione, si consentirà l’entrata alle stesse condizioni ai prodotti frutticoli dell’Argentina, in testa nella lista nera del dipartimento di Stato americano per lo sfruttamento del lavoro minorile nelle coltivazioni di aglio, uva, olive, fragole, pomodori. In buona sostanza ci ritroviamo a competere con produzioni che sono l’esito di condizioni di lavoro e trattamenti (sotto il profilo della sicurezza sanitaria e delle tutela del lavoro) completamente diversi. A chi si cimenta in affermazioni diverse forse tutto ciò non interessa. A noi, sì – sottolineano Renna e Bruni. Noi ci mettiamo la faccia. Sempre.
Con il Ceta si tradisce così l’effettiva natura del libero mercato, che può essere tale solo se le regole di partenza sono uguali per tutti. Pensiamo all’entrata in vigore in Italia di una dura legge sul caporalato, o pensiamo a stringenti norme che regolano l’utilizzo di prodotti chimici in Italia: la tutela del consumatore, dei lavoratori e dell’ambiente finiscono paradossalmente per diventare un handicap per le produzioni nostrane, rispetto a quelle estere. Il trattato Ceta tuttavia non ci si ferma qui. Esso infatti accoglie la presunzione canadese di chiamare con lo stesso nome prodotti che sono di natura completamente diversa. Per la prima volta nella storia dell’Unione si accorda infatti a livello internazionale il via libera alle imitazioni dei nostri prodotti più tipici dall’Asiago al Gorgonzola, dalla Fontina ai prosciutti di Parma e San Daniele fino al Parmigiano nella sua traduzione di Parmesan. In buona sostanza il trattato ‘legittima’ quell’italian sounding che vale il doppio delle intero export agroalimentare italiano, che rappresenta il nemico più temuto sui mercati esteri e contro cui Coldiretti si è battuta in tutti questi anni. La subalternità dei negoziatori europei (e italiani) emerge con ancora più forza nel caso delle Dop e Igp. Ne abbiamo 291 in Italia e ben 250 vengono lasciate senza tutela, comprese quelle maremmane e toscane. Forse, sempre a chi si cimenta nel dire il contrario non interessa tutto ciò. A noi sì. Tanto pure. Si crea così un precedente a livello internazionale – che certamente farà dottrina nei trattati in corso con il Vietnam e il Giappone – per cui le volgarizzazioni dei nostri marchi agroalimentari, trovano la strada aperta. C’è bisogno che i decisori politici italiani, e magari non solo loro, si chiariscano, definitivamente, le idee, magari insieme a chi la pensa diversamente magari solo per partito preso: chiedere di chiamare con nomi diversi prodotti diversi o il rispetto delle stesse regole produttive non significa essere protezionisti, sovranisti o liberisti. La trasparenza sul mercato, la concorrenza leale, la tutela del lavoro e dei consumatori, non hanno etichetta, sono cose di buon senso. Ed è di buon senso anche la difesa intelligente e consapevole degli asset economici del proprio Paese. Il resto, a nostro modesto parere, sono e restano solo chiacchiere senza, purtroppo, appunto, nessuna sfumatura di buon senso .
Dopo le denunce di Coldiretti sul grano canadese al glifosato, non avevamo dubbi che le multinazionali avrebbero messo in campo tutti i loro soldi pur di affermare che il glifosato fa bene…alla salute. L’inchiesta di “Le Monde”, (Monsanto papers il gigante dei pesticidi sotto accusa), magari meriterebbe di essere letta anche da chi la pensa diversamente da noi ma, comunque, consuma ogni giorno per vivere– concludono il presidente Bruni ed il direttore Renna – sulle carte segrete del colosso dell’agrochimica mondiale l’inchiesta svela le strategie della multinazionale per screditare gli scienziati che ritengono i prodotti a base di glifosato pericolosi per la salute.
In questi anni, la multinazionale, ha cercato di dimostrare che il pesticida “glifosato” non è affatto cancerogeno e che, stando sempre a quanto riporta “Le Monde”, in particolare negli ultimi due anni, ha cercato di demolire l’autorevolezza di centri di ricerca importanti bollandoli come “scienza –spazzatura”. Dopo aver letto questa ricostruzione di Le Monde, sottolineano Bruni e Renna, con forza, e qui senza paura di essere smentiti, che l’agricoltura senza glisofato ha tutto da guadagnarci perché si qualifica sempre di più garante della sicurezza alimentare, conferma alti standard qualitativi e questo incide notevolmente sulla valorizzazione delle nostre produzioni. I cittadini –consumatori, a questi temi, per fortuna, tengono molto e sono con noi e contro liberalizzazioni pericolosissime. Queste non sono certo chiacchiere. Ma fatti.