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Mirabile dictu*, mercoledì 14 giugno piazzetta Ettore Socci a Grosseto s’è trasformata in una piccola agorà. Quella che nell’antica Grecia era la piazza principale della città, dove si conveniva per dibattere della cosa pubblica, per parlar d’affari e certamente anche per occhieggiare lascivi quel che le tuniche lasciavano intravedere.
Nel triangolo di sampietrini alle spalle del busto austero di Ettore Socci – intellettuale risorgimentale, giornalista, garibaldino, mazziniano, massone, parlamentare repubblicano per cinque legislature – si sono dati convegno un gruppo di, diciamo così, soggetti sinistri. Nel senso di variegata fauna umana riconducibile al balcanizzato e depresso arcipelago culturale della sinistra.
A riunire la scombiccherata armata Brancaleone, l’associazione culturale “La Staffetta [partigiana]” che fedele a uno dei più inossidabili stereotipi veterocomunisti – direbbero quelli liquidi e post ideologici – aveva organizzato un dibattito politico di strada dal titolo inaffrontabile e criptico, forse esoterico: Una comunità-popolo omogenea, interclassista che si percepisce come detentrice assoluta della sovranità popolare. Mica seghe.
Oltretutto nell’ambito di una rassegnessa dal titolo disinibitamente enciclopedico: Zona di Libero Accesso [ZLA]: Aprire la città con le parole – Ragionamenti e racconti in pubblico sul populismo, sulla religione e la sfera pubblica, sul rapporto tra tempo privato e tempo di lavoro. Una roba, almeno apparentemente, da uccidere la libido al toro della Marsiliana. Creatura mitica, e un po’ agiografica, che incarna una delle icone pop del genius loci maremmano.
Malgrado le premesse autolesioniste, sotto gli auspici benevoli di Ettore Socci e d’un ventolino fresco e benedetto, l’ora e mezzo di discussione è invece volata via eterea nell’attenzione più ossequiosa degli astanti i due relatori. Incredibilmente con un pubblico che dagli originali trenta feticisti del “dibattito curturale”, è evoluto in una piccola platea con numeri più che raddoppiati.
Altrettanto incredibilmente, di là dal tavolo c’erano due che non vomitavano offese, improperi e battutacce alla Vittorio Sgarbi. E nemmeno ruttavano in un italiano approssimativo e svilito da metafore calcistiche o televisive. Cose che tanto piacciono al pubblico da talent show che episodicamente si cimenta in dibattiti simil-culturali.
Così, stimolato da Emilio Guariglia, caporedattore del Tirreno, Manuel Anselmi, ricercatore in sociologia dei fenomeni politici dell’università degli Studi di Perugia, che da anni si occupa di populismi latinoamericani ed europei, ha pacatamente – anzi meglio – lucidamente argomentato su cosa sia davvero il populismo, come si manifesti sotto differenti spoglie e di quali meccanismi presiedano al suo funzionamento. Nel salto d’intermediazione fra sovranità popolare e potere politico.
En passant, Anselmi ha dato conto del fatto che in tute le università del mondo, politologi, sociologi, e presumibilmente antropologi, studiano l’Italia come unico esempio di sistema istituzionale da anni ostaggio di più populismi, di governo e d’opposizione. Unico caso nell’orbe terraqueo. Si parva licet.
Incredibilmente, ancora, nessuno del pubblico sbadigliava, compulsava il cellulare, andava via prima del tempo o attaccava bottone al vicino. Ognuno se ne stava concentrato e assorto, senza un rovente muro d’orto. Non c’erano caudatari, né infiltrati, né presenzialisti in ansia da selfie. Neppure la Digos, c’era. E tutti, assisi, si godevano l’argomentazione accademica quanto accessibile, ebbri della gioia di non partecipare a un comiziaccio infarcito di parole d’ordine tenuto dal pollo di batteria di giornata. Giulivi di poter godere di ragionamenti culturali liberi, per quanto politicamente orientati.
Addirittura, cosa comica a dirsi, il registro educato e civico dell’iniziativa riusciva ad attrarre una decina di giovani al di sotto dei trent’anni. E le espressioni facciali dell’accozzaglia volgevano generalmente al pensoso compiaciuto.
Sorprendentemente, infine, sulla piccola agorà grossetana aleggiava la ricomposizione tacita e condivisa delle gerarchie dei ruoli e dell’autorevolezza basata sulle competenze. Per cui era chiaro a tutti che il professore era uno, e non sarebbero stati tollerati atteggiamenti tuttologici di stampo anti-vaccinista. Parlare di ‘politica in senso lato’ tornava cosa non disdicevole.
Artefici di questo buco nero spazio-temporale, del quale esser grati, quattro elementi di variegata estrazione. Quattro moschettieri, legni torti con storie diverse, armati di tigna e un pizzico d’utopia. Luca Alcamo, mercante e mallevadore maremmano di Art. 1-Mdp. Simone Giusti, intellettuale raffinato e rompicoglioni. Francesco Falciani viticoltore naif con smanie culturali e Marco Giuliani, affetto da patologia cronica movimentista.
Il fatto che vengano da sinistra probabilmente non è casuale. Ma se una cosa simile fosse maturata a destra o in altri territori politico culturali, avrebbe meritato gli stessi applausi. La questione è di cultura politica prima che partitica.
Qualcuno, alla fine dell’iniziativa, giura d’aver visto delle rondini planare sulla spalla di Ettore Socci. Qualcun altro dice fosse una sola.
P.S. Per i recidivi, mercoledì 21 giugno, alle 18.30 in piazza Indipendenza a Grosseto, ci sarà il terzo appuntamento di ZLA, dedicato a ”Tempo di lavoro e tempo privato, un discorso sopra confini sempre più incerti” con Andrea Valzania, ricercatore di sociologia presso il dipartimento di Scienze sociali, politiche e cognitive dell’università di Siena
* Cosa meravigliosa a dirsi