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C’è poco tempo per cambiare attitudine, ma ancora nel mondo della cooperazione sociale stenta la consapevolezza piena di quel che sta accadendo. Che piaccia o meno – e di motivi per cui la cosa potrebbe non piacere ce n’è più d’uno – quelli che ancora oggi vengono definiti ‘servizi sociali’ stanno cambiando pelle. Per una lunga serie di concause: riduzione inesorabile delle risorse pubbliche. Contrazione del reddito delle famiglie. Modifiche strutturali demografia. Cambio degli stili di vita. Perdita di ruolo della famiglia come ammortizzatore sociale. Chi più ne ha, più ne metta.
Rovesciando lo schema. Dopo una ventennale agonia, sta per perdere senso l’equazione welfare locale = cooperative che gestiscono i servizi in appalto. Il problema è che fra sistema pubblico e mondo cooperativo manca una strategia condivisa per raddrizzare la barca. Sulla quale stanno in tanti: anziani, disabili, tossicodipendenti, poveri assoluti, Neet (not employed, engaged or in training), famiglie a rischio povertà, e tutto lo sterminato campionario di quelli che vengono considerati soggetti fragili, o deboli. I marginali. Platea in costante espansione, parallelamente al ridimensionamento del ceto medio. Declinazione brutale della metafora della “forbice che si allarga”.
Oggi la stragrande maggioranza dei servizi alla persona – Rsa, case famiglia, diurni, assistenza domiciliare, servizi educativi, doposcuola, accoglienza ai richiedenti asilo…. – è garantita dalla cooperazione sociale.
Qualche numero che fotografa la situazione in provincia di Grosseto. nel 2015, dato più recente, le 44 cooperative sociali [venti di tipo A e ventitré di tipo B] presenti sul nostro territorio hanno realizzato un valore della produzione di 40,5 milioni di euro (+2,9% sul 2014) con un patrimonio netto di 6,2 milioni (+0,9%). Il grosso è riconducibile alle cooperative sociali di tipo A, che fatturano 25,7 milioni (-2,9%), mentre 11,6 vanno attribuiti a quelle di tipo B che impiegano persone svantaggiate (+5,9%). Il resto a un consorzio sociale. Gli addetti totali di questo comparto erano 1.158, in calo del 6% sul 2014. Dato particolare, tre quarti del valore della produzione in Maremma è appannaggio di 9 imprese aderenti a Legacoop Toscana. Insomma, la cooperazione sociale rimane nella nostra realtà un asset strategico, soprattutto tenendo conto del fatto che già oggi il 25% della popolazione residente è ultrasessantacinquenne…….
Ma cosa sta succedendo. In estrema sintesi, al di là del veloce aumento della popolazione anziana, succede che sta altrettanto velocemente diminuendo il reddito medio della gran parte delle famiglie, in contemporanea alla contrazione di risorse pubbliche. In questo quadro, il sistema di erogazione dei servizi affidati con gara alle cooperative sociali, si regge sulla compartecipazione degli utenti calcolata sul cosiddetto Isee [indicatore sociale economico equivalente]. Esempio classico: per entrare nella Rsa un anziano compartecipa alla spesa con il suo reddito in base al proprio Isee. Il resto è a carico del Servizio sanitario regionale e del Comune di residenza [quota sociale]. Se la struttura è convenzionata.
Il combinato disposto dei trend economici e sociali in corso, inoltre, fa sì che già oggi i fruitori delle prestazioni sociali siano di fatto prevalentemente persone con redditi medio alti. Con due fenomeni collegati: la marginalizzazione delle fasce più deboli e la progressiva entrata in crisi di segmenti sempre più ampi di ceto medio. Anche in questo caso gli esempi aiutano. Se una persona perde l’autosufficienza per una malattia e si trova a dover entrare in Rsa, che come minimo costa 2.500 euro/mese, o trova una struttura convenzionata oppure va in crisi nera. Lo stesso succederebbe a chi avesse bisogno dell’assistenza domiciliare integrata, dovendola pagare integralmente, 15/20 euro l’ora, o nella migliore delle ipotesi compartecipando alla spesa. Da qui, fra l’altro l’esplosione del fenomeno delle badanti. Con ampia diffusione dei pagamenti in nero.
A tutto questo bisogna aggiungere che l’introduzione del cosiddetto regime della “libera scelta”, dà ai cittadini la possibilità di optare per le strutture a cui rivolgersi, sia rispetto all’offerta residenziale che semiresidenziale. Per cui, succeda quel che succeda, gli operatori delle coop sociali dovranno fare il passaggio culturale, e operativo, della soddisfazione del ‘cliente’ e non più del ‘paziente’. Più facile a dirsi che a farsi.
Considerata la rapida evoluzione dei processi, quindi, la sfida per la cooperazione sociale è riuscire a ripensarsi senza perdere la strada di casa e cambiare il proprio Dna. Cioè a dire, evitare il rischio di assimilare in tutto e per tutto la logica for profit. Nel futuro prossimo, incombente, infatti, anche quello dei servizi alla persona di natura sociale sarà un mercato prevalentemente ‘privato’. Quindi più che puntare su una strategia di diversificazione degli ambiti lavorativi, le coop sociali dovranno reinventarsi sulla base dei diversi tipi di mercato che nel settore tradizionale si vanno articolando. Altro esempio: come garantire l’accesso a un doposcuola qualificato ai bambini dislessici, con lezioni che possono costare 25/30 euro l’ora?
Le enunciazioni di principio sono gratuite. Ma il problema è reale. Procedendo per semplificazioni inevitabilmente grossolane, una strada potrebbe essere quella di riscoprire la mutualità fra le persone. Perché solo dividendo i costi di un rischio che potenzialmente riguarda ciascuno di noi, è possibile garantire i servizi a chi ne ha bisogno. Finora, anche se in modo parziale e inefficiente, ci aveva pensato la fiscalità generale. Metodo che però mostra da tempo la corda.
La mutualità può essere una risposta – di prestazioni integrative per la non autosufficienza si parla da qualche tempo. Ma è un campo minato. Perché alle mutue si aderisce volontariamente, e il rischio è che lo faccia solo chi se lo può permettere. Un po’ come con le assicurazioni.
Il pubblico potrebbe avere un ruolo, ma non è chiaro quale. La cooperazione sociale potrebbe essere un fattore di aggregazione e organizzazione delle persone per costruire dal basso risposte ai bisogni, sia nelle comunità locali che a scala più vasta. Ma è una strada impervia che comporta la rottura culturale del fronte prevalente dell’individualismo. Che ha alle spalle trent’anni di egemonia gramsciana.
Vada come vada, il tempo è scaduto. O il panico, o il rilancio di un ruolo insostituibile.