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La natura vuole il suo sfogo, recita l’adagio popolare. Normale, quindi, che un lupo sbrani una pecora se gli capita a tiro. Se gli capita a tiro, però. Visto che la cosa non è poi così frequente come si dice. D’altra parte, bisogna tener conto anche delle esigenze di pastori e produttori di cacio, che in provincia di Grosseto rappresentano un comparto produttivo niente male.
Il fenomeno delle predazioni di pecore e agnelli, da questo punto di vista, sembra mettere in discussione la convivenza pacifica tra lupo appenninico e filiera lattiero-casearia a trazione pecoreccia. Ennesima variante dell’inesausta diatriba tra sviluppo e tutela ambientale. Anche se nel cono d’ombra mediatico degli attacchi alle greggi si celano molte verità mai esplicitate. Che merita raccontare, al netto degl’isterismi animalisti e dell’idiozia di quelli che uccidono un lupo e lo appendono ai cartelli stradali.
Vale la pena iniziare dalla filiera lattiero casearia. Realtà che in provincia di Grosseto si regge sulle fatiche di 220.000 ovini (quasi uno per ogni abitante residente) che l’anno scorso hanno prodotto 19,8 milioni di litri di latte (58% della produzione Toscana), 13,9 dei quali (69% del totale regionale) sono stati lavorati a Pecorino toscano Dop. Formaggio prelibato che nel 2016 ha raggiunto una produzione di 2,5 milioni di chili (69% di quella regionale), per un fatturato di 14,7 milioni di euro (58%), 2,3 dei quali da export. E che ha alimentato un indotto economico con 2.000 addetti totali (67%), 9 caseifici produttori di Pecorino Dop (53%) e 498 allevamenti (57%) sotto il controllo dell’organismo di certificazione DQA Certificazioni. Insomma, un piccolo ma florido comparto produttivo, che dà lavoro, produce ricchezza, e per il quale viene spontaneo provare simpatia – tutti amiamo il Pecorino Dop – di fronte agli attacchi ferini alle greggi. Solidarizzando con pastori immortalati dai media come ostaggio del lupo cattivo. Che perde il pelo, ma non il vizio.
Oltre la cortina fumogena dei luoghi comuni, però, c’è dell’altro di cui prendere atto. Senza che ciò significhi vestire i panni del tifo per l’uno o l’altro lato della barricata.
In questo caso iniziamo dalla fine, per poi ripercorrere il ragionamento dall’inizio: la soluzione non è sparare ai lupi. Nemmeno a quel 5% del totale che pure la direttiva comunitaria Habitat, a certe condizioni, potrebbe consentire in deroga di uccidere. Non tanto perché abbattere lupi sarebbe un atto di barbarie – in tempi in cui si teorizza lo sparo nella schiena ai ladri, poi – ma più semplicemente perché sarebbe del tutto inutile.
Ab origine. All’inizio del secolo scorso i cosiddetti “lupai”, retribuiti lautamente dai Comuni, sterminarono a dovizia i lupi per garantire la ‘libera circolazione’ delle greggi. Da allora in Maremma i pastori hanno fatto, si fa per dire, la bella vita. Potendosi permettere di liberare le greggi nei campi per tutto il giorno, spesso anche di notte, senza avere l’assillo delle predazioni. Bengodi durato fino agli anni recenti, quando, in seguito al progetto “San Francesco” (fine anni ’70) per il reinsediamento del lupo appenninico a rischio estinzione, il vorace animale ha iniziato a riappropriarsi di vaste porzioni di territorio. Da bravo predatore, un lupo può percorrere fino a 40/50 km alla ricerca di prede.
Da qualche anno è riemerso così il tema delle predazioni delle greggi, con un’eco mediatica sovradimensionata rispetto alla consistenza effettiva del fenomeno. Secondo i dati del Registro delle predazioni (pubblico) istituito dalla Regione Toscana nell’ottobre 2014, infatti, in provincia di Grosseto nel 2015 sono stati registrati 479 predazioni, 1.030 ovicaprini adulti e 180 agnelli morti, 204 capi feriti e 182 dispersi. Mentre nel 2016 ci sono stati rispettivamente 281 predazioni, 565 ovicaprini adulti e 75 agnelli morti, 101 capi feriti e 117 dispersi. Dal 2015 al 2016 nel nostro territorio la diminuzione del fenomeno è stata del 40%. Tenuto conto che i capi ovicaprini in provincia sono 220.000, è evidente che il fenomeno delle predazioni, pur non ininfluente, incide per una percentuale irrisoria: 0,7-1%.
Uccidere i lupi, peraltro, non serve. Veterinari ed etologi spiegano perché, e la scienza per propria natura non è ‘democratica’. Al dibattito partecipa chi conosce e le suggestioni non valgono. Come tutti i predatori specializzati, il lupo ha un sistema selettivo interiorizzato della specie molto efficiente. Dei cinque/sei cuccioli che ogni femmina può partorire, il branco ne seleziona mediamente uno solo. Perché questo è coerente con le strategie di caccia dei lupi e con l’equilibrio ecologico nell’areale di pertinenza di ogni branco. Insomma, tot numero di lupi ogni tot numero di prede potenziali. La natura si autoregolamenta, e i lupi, fra l’altro, tengono sotto controllo specie molto dannose come caprioli, daini e cinghiali.
Uccidere qualche lupo in più, in questo senso, non fa che modificare il meccanismo di auto-selezione della specie. Per cui della cucciolata tipo di 5/6 esemplari, ne sopravvivono due, tre o quattro, a seconda delle esigenze del branco. Anche chi abbatte lupi illegalmente, così, non ne trae alcun vantaggio. Ergo, a meno di non voler sterminarli tutti – cosa impossibile per legge – la strada da percorrere è un’altra. Ed è una strada che, purtroppo, comporta per gli allevatori qualche sacrificio in più, ma soprattutto un cambio di paradigma rispetto ad abitudini inveterate.
Negli ultimi anni la Asl ha effettuato più di un centinaio di controlli negli allevamenti ovicaprini, verificando sul campo che dove i pastori adottano le strategie di protezione delle greggi previste dal progetto MedWoolf – cani da pastore e da guardiania, recinti, reti alte due metri a maglia elettrosaldata in cima rivolta all’esterno, ovili protetti – i fenomeni di predazione da parte dei lupi sono quasi scomparsi. Coi lupi tornati alla più faticosa caccia a caprioli, daini e cinghiali.
Il problema principale, in definitiva, sta nella resistenza di una parte dei pastori a modificare le tecniche di allevamento e protezione delle greggi. Allevatori che, a onor del vero, hanno un problema serio che li esaspera: il prezzo troppo basso che viene loro riconosciuto dalla filiera per ogni litro di latte prodotto, destinato alla trasformazione. Problema che qualcuno potrebbe aver la tentazione di risolvere con gl’indennizzi per i capi predati, fino a 700 euro a pecora per un massimo di 15.000 euro in tre anni.
Fermo restando che l’ultimo a “ballare con i lupi” è stato Kevin Kostner, e che prima di lui solo San Francesco era riuscito a interloquire con questa specie riottosa. Forse è il caso che si cominci a ragionare di convivenza tra lupo e pastorizia in termini scientifici. E che certa politica – che s’è inventata gli “assessori alle predazioni” (Attila?) – farebbe meglio a calmare gli animi invece che soffiare sul fuoco per accattare qualche voto in più.
L’approccio antiscientifico e irrazionale, rimane uno dei mali del nostro tempo. Sulle predazioni, se si continua così, l’unica soluzione coerente sarà quella di convincere i lupi a diventare vegetariani. E a godere dei piaceri del Pecorino toscano Dop.