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C’è una rivoluzione incruenta in corso fra i filari delle vigne della Maremma. Una “rivoluzione di velluto”, parafrasando quel che successe a Praga nel 1989. Dai quasi 800 ettari della prima vendemmia nel 2012, ai 1.730 attuali. Da poco più di 800.000 bottiglie ai 5,5 milioni di pezzi del 2017. Sono i numeri sorprendenti della crescita della Doc Maremma Toscana, che in appena cinque anni è diventata la prima denominazione d’origine controllata della provincia di Grosseto per superfici rivendicate. Un exploit produttivo che sta radicalmente cambiando i connotati alla nostra vitivinicoltura per come siamo abituati a conoscerla. Aprendo nuovi suggestivi scenari.
Il fenomeno, per ora, rimane circoscritto alla cerchia degli addetti ai lavori, ma è d’interesse generale, considerato che quello grossetano è il terzo territorio della Toscana per superfici vitate. Alle spalle delle inarrivabili, ad oggi, superpotenze Firenze e Siena.
Il vino, dunque, non è solo affare da cultori dell’enogastronomia, ma un motore potente del nostro comparto agroalimentare, ancorché utilizzato a giri troppo bassi. Con un tessuto produttivo diffuso in grado di generare fatturati, posti di lavoro (con un vasto indotto), cultura e know how produttivo.
Due numeri per farsi un’idea. In provincia di Grosseto ci sono 8.700 ettari coltivati a vigneto: 4.100 sono Doc o Docg, 4.600 Igt. Attualmente le bottiglie prodotte variano tra 40 e 45 milioni, con un potenziale di almeno 50, di cui circa 18 milioni sono di vini Dop. Tutto questo si traduce in un fatturato per i produttori che a seconda delle stime varia dai 60 ai 120 milioni di Euro. Con un ampio margine di miglioramento perché il prezzo medio a bottiglia è ancora troppo basso, anche per la vendita di molto vino sfuso. D’altra parte la Maremma grossetana è uno dei territori della Toscana, che a sua volta è regina della vitivinicoltura nazionale: un miliardo di fatturato sui 5,5 miliardi dell’intero comparto, regione con le denominazioni d’origine a più alto valore aggiunto nel belpaese.
Tornando al fenomeno Doc Maremma Toscana nata nel 2011, succede che i produttori stanno progressivamente abbandonando le altre Doc, e in parte anche le Igt, per “rivendicare” – così si dice nel gergo tecnico – la nuova denominazione d’origine. Due i motivi principali: il nome Maremma Toscana è un traino eccellente dal punto di vista commerciale, e la cosa non guasta in un mercato decisamente competitivo dove, oltre alla qualità del prodotto, conta stabilire un legame solido tra la denominazione e un territorio facilmente identificabile dai consumatori. Chiaro che Maremma e Toscana sono due marchi fortissimi. Il secondo motivo è che la Doc Maremma Toscana è una denominazione molto flessibile, che consente d’imbottigliare bianchi, rossi, rosati, spumante e passiti con l’indicazione di 37 differenti tipologie di vino, offrendo alle aziende la possibilità di diversificare la loro produzione. Due fattori di competitività che stanno dando i loro frutti, con prezzi delle bottiglie remunerativi.
Parallelamente al successo della Doc Maremma Toscana, il Morellino di Scansano, 1.450 ettari e 10 milioni di bottiglie, continua ad essere uno dei primi dieci vini Docg venduti in Italia nelle catene della grande distribuzione organizzata (Gdo). Mentre Docg Montecucco (350 ettari) e Bianco di Pitigliano Doc (300 ettari) mantengono le proprie posizioni di mercato.
Tutto bene dunque? Le cose non vanno male, ma come sempre potrebbero andare meglio. La provincia di Grosseto ha infatti un potenziale enorme ancora decisamente sottoutilizzato. E essere ambiziosi non sarebbe un atto di presunzione. Esempi da seguire in Toscana ce ne sono a bizzeffe: Il Nobile di Montepulciano, per dirne uno, con 1.300 ettari di vigne a bacca rossa ha un valore medio annuo della produzione di 65 milioni di Euro, con 150 milioni di valore dei vigneti e 200 milioni di valore patrimoniale stimato delle aziende agricole.
In provincia di Grosseto il dibattito è sotto traccia, e sarebbe invece il caso emergesse alla luce del sole. Marginalizzando proverbiali egoismi, corporativismi e campanilismi.
Quelli sulla frontiera dell’innovazione dicono sottovoce che il bersaglio grosso sarebbe trasformare la provincia di Grosseto in un vero e proprio terroir. E non a caso il modello potrebbe essere quello del cosiddetto sistema Bordeaux, una delle aree più celebrate della Francia.
Con la denominazione Maremma Toscana che dovrebbe fare massa critica aggregando volumi, convertendo le vecchie Doc in altrettante sottozone. Fuori rimarrebbero le Docg Morellino di Scansano e Montecucco, che hanno una propria forza e valorizzano il vitigno Sangiovese espressione di due diverse aree della Maremma. In questo quadro, c’è anche chi pensa che il Bianco di Pitigliano, con una diversa politica commerciale, per le qualità intrinseche ai terreni di origine vulcanica potrebbe ambire a scalzare la Vernaccia di San Gimignano dal ruolo di vino bianco rappresentativo della Toscana nel mondo.
Una strategia che lascia campo a molte suggestioni, e che senza dubbio scatenerà un dibattito focoso. Di sicuro sarebbe una sfida esaltante perché l’operazione porterebbe a una semplificazione radicale del panorama produttivo, che comporterebbe anche l’individuazione di nuove strategie commerciali e la realizzazione di una piattaforma logistica comune a tutti i produttori per aggredire con più efficacia il mercato nazionale e quelli esteri. Dato che l’export è sempre più determinante per creare reddito. Senza considerare l’enorme vantaggio insito nel comunicare i vini di questa terra con un brand accattivante e immediatamente comprensibile, Maremma Toscana, declinandolo se del caso nelle varie sfaccettature (terroir) che lo caratterizzano.
Insomma, di carne al fuoco ce n’è davvero tanta. Con un po’ di lungimiranza, spirito di squadra e voglia di mettersi in discussione la vitivinicoltura maremmana potrebbe ambire a raggiungere il livello di quelle di Firenze e Siena. Emancipandosi dal latente complesso d’inferiorità.