GROSSETO – Sarajevo non è soltanto una splendida capitale europea, sospesa tra Occidente e Oriente. Per quasi quattro anni, dal 5 febbraio 1992 al 29 febbraio 1996, la città è stata assediata dai serbi durante la Guerra di Jugoslavia, nel quasi totale disinteresse delle potenze mondiali e dell’Onu, che infatti i bosniaci detestano. Fatte queste premesse, esplorare la città che ha ospitato il più lungo assedio nella storia moderna non può lasciare indifferenti.
La guerra a Sarajevo è ancora dappertutto. Non soltanto nelle vite di tanti giovani (orfani) o meno giovani (donne vedove o che hanno perso un figlio o un fratello), ma anche negli sguardi e nelle parole di chi s’incontra per strada, o in un locale, nei monumenti ai caduti, nei luoghi distrutti dalle bombe che oggi sono diventati luoghi simbolo dell’orrore. Troppo fresca la ferita per essere anche solo minimamente rimarginata. Eppure la gentilezza, i sorrisi, l’accoglienza e la disponibilità dei bosniaci lascia stupefatti. Sotto i 40 anni tutti parlano inglese, bene o molto bene. Pochi, pochissimi, invece tra gli over 40, ma tutti si fanno in quattro per aiutare chi ha bisogno di un’informazione. Tanti episodi da poter raccontare dei precedenti viaggi, l’ultimo è successo proprio stamani: dopo due negozi in cui non sono riuscito a trovare una spina a due poli (dotatevi di adattatore), ho chiesto aiuto a un giovane. Non potendo accompagnarmi al negozio perché andava di fretta ha telefonato lui stesso per informarsi se avessero ciò di cui avevo bisogno e mi ha mostrato la mappa per raggiungerlo. Benvenuti a Sarajevo.
Il primo consiglio nell’esplorare la capitale è quindi quello di vederla dall’alto, in un luogo che lascia senza fiato. Prendendo come base la Old Town, la città vecchia, in bosniaco Stari Grad, che ricoperta dalla neve è ancora più bella, raggiungere la fontana di Sebily che negli anni è diventata uno dei simboli principali, se non il principale. Anche stamani, come quasi sempre, era presa d’assalto dai piccioni. Una partenza in salita, è il caso di dirlo, perché per raggiungere la Bijela Tabija, la fortezza bianca che domina la città, occorre fare una bella scarpinata. A piedi ci vogliono circa 40 minuti, 5 minuti in taxi (5 marchi, 2,5 euro): il consiglio è di camminare, entrando magari in qualche pekara (panificio) per rifocillarsi e scaldarsi (ce n’è bisogno) con un burek caldo: si tratta di un cannellone di pasta sfoglia ripieno di carne speziata, ma ci sono anche con patate o formaggio. Per due burek (pasto completo) e una brioche (i bosniaci amano quelle con i frutti di bosco) si spendono meno di due euro. Il cibo – come quasi tutto in Bosnia – è assai economico. Raggiunta la fortezza, un monumento nazionale in parte diroccato, alle spalle c’è una veduta sulla vallata, davanti uno scorcio mozzafiato sull’intera città di Sarajevo, che appare come sovrastata dal cimitero di Kovaci. E’ una vista tristemente meravigliosa: una lunga distesa di stele bianche che sembra un monumento, più che un cimitero. Solo camminando al suo interno e vedendo le date di morte dei defunti, tutte comprese tra il 1992 e il 1995, si inizia a percepire il significato di questo luogo: qui, come nelle altre colline che circondano Sarajevo, stavano appostati i cecchini serbi che sparavano sulle persone che camminavano in città, cercando cibo o medicinali. Le stele sono bianche perché nell’Islam la morte non è solo dolore e sofferenza è anche purificazione dai peccati e vita eterna.
Scendendo nella collina è quasi obbligatorio proseguire il tour celebrativo nella recentemente riaperta al pubblico biblioteca nazionale, altro luogo simbolo della guerra, dove in una notte – tra il 25 e il 26 agosto 1992 – furono bruciati oltre due milioni di libri. E’ posta sulla Zmaja od Bosne, la principale via che delimita la old city, e si specchia sul fiume Miljacka che poche decine di metri dopo diventa quasi totalmente ghiacciato e ricoperto dalla neve.
Tra i tanti monumenti che ricordano l’orrore della guerra uno dei più significativi è la scultura di Mensud Keco all’interno del Veliki Park, dedicato ai bambini morti durante il conflitto, proprio su Marsala Tita, la via pedonale principale della città: il padre Ramo chiama il figlio Nermin durante l’assedio di Srebrenica, implorando di correre da lui perché i serbi non gli faranno niente (https://www.youtube.com/watch?v=JhJNBhAYUTk per vedere il toccante video). Padre e figlio saranno ritrovati in una fossa comune nel 2008. Uccisi, come altri 8.370 esseri umani in un solo giorno.
Un giro notturno nella Old Town, nelle viuzze illuminate a giorno tra persone abituate a camminare sfidando ghiaccio e neve e con il minareto della imponente moschea di Gazi Huzrev-Beg è il modo migliore per concludere con il sorriso una giornata spesa a pensare in una città simbolo della terra del sangue e del miele, come nel film di Angelina Jolie.