Praticare uno sport d’acquaviva (canoa, kayak, rafting, sup e surf) significa confrontarsi con gli ambienti d’acqua per apprezzarne le prerogative paesaggistico naturalistiche. Significa anche promuovere nuove sensibilità e politiche legate al recupero della naturalità e riqualificazione di corsi d’acqua degradati nonché la messa in sicurezza degli stessi.
“L’attività svolta in questi anni dall’area acquaviva Uisp – spiega Maurizio Zaccherotti, coordinatore territoriale e presidente dell’Associazione Terramare – sul territorio ed in particolare sui fiumi si è caratterizzata per aver raccolto importanti informazioni di carattere ambientale ed elaborato linee guida per una corretta gestione dei corsi d’acqua nell’ambito dei contratti di fiume che riteniamo debbano essere portati avanti dal Consorzio Bonifica e Comuni quanto prima. Riteniamo comunque necessaria la definizione di un protocollo per la fruibilità sicura del fiume sia dal punto di vista sociale che sportivo. Ad oggi infatti, nel caso dell’Ombrone, il fiume viene navigato da centinaia di persone ogni anno e gli argini e golene rappresentano luoghi per fare attività sportiva di vario tipo come footing, caccia, pesca, ginnastica, trekking. Un fiume vissuto con rispetto diviene indubbiamente un luogo più sicuro dove anche casi di degrado sociale tendono a sparire”.
“Alla luce della crescente attenzione anche mediatica sul tema del rischio idrogeologico e messa in sicurezza dei fiumi – aggiunge Zaccherotti – vale la pena inquadrare questa tematica non banale ricollocando la logica degli interventi di rimozione e asportazione della vegetazione lungo i corsi d’acqua in una più corretta dimensione. Nonostante la presenza di vegetazione naturale di per sé sia, in generale, un fattore di sicurezza (rallenta il deflusso e riduce i picchi di piena a valle), la nostra dissennata gestione del territorio, in molti casi, l’ha trasformata in un potenziale fattore di rischio. A priori, quindi, non si può né essere certi della possibilità di lasciarla alla libera evoluzione, né della necessità di una sua rimozione, ma la decisione va presa caso per caso, in modo circostanziato, considerando vantaggi e svantaggi dal punto di vista idraulico, oltre che gli impatti ambientali legati ad eventuali interventi”.
“La vegetazione arbustiva e arborea, in alveo e riparia – afferma il presidente di Terramare – aumenta la scabrezza idraulica e rallenta la corrente con un effetto di laminazione analogo alle casse di espansione in linea, ma diffuso a tutto il reticolo idrografico, fornendo un considerevole (e gratuito) contributo alla riduzione dei picchi di piena e dell’irruenza della corrente a valle. Anche se a prima vista può apparire paradossale, la vegetazione naturale in alveo e nella fascia di pertinenza fluviale, pur essendo soggetta ad essere travolta dalle piene, può essere al tempo stesso un efficiente dispositivo per intercettare e trattenere gli alberi travolti (non solo dalle piene, ma anche dalle frane), riducendo così in molti casi il rischio di ostruzione dei ponti. La vegetazione riparia, col suo esteso e tenace apparato radicale, consolida le sponde, contrastandone l’erosione e riducendo la franosità dei versanti”.
“La vegetazione – precisa Zaccherotti (in una foto significativa al Berrettino, con cataste di tronchi alle sue spalle) – aumentando la scabrezza idraulica ed elevando localmente il livello idrico, favorisce l’esondazione e può quindi aumentare localmente il rischio. Gli alberi travolti dalle piene possono ostruire la luce dei ponti non adeguatamente dimensionati, provocando ì esondazioni. Inoltre, nel caso di improvviso sfondamento della barriera di tronchi e rami incastrati tra i piloni dei ponti, l’onda d’urto della corrente può provocare conseguenze disastrose anche a valle. La vegetazione sugli argini può favorire l’insediamento di animali come ratti, nutrie e tassi che, scavando tane, ne minano la stabilità; in ogni caso, la copertura vegetale rende problematica l’ispezione visiva degli argini e, quindi, la tempestiva individuazione di punti deboli. Assodato quindi che è stata l’imprudenza e imprevidenza umana (edificando nelle aree inondabili, restringendo gli alvei e costruendo ponti con luci strette che si comportano da strozzature idrauliche) a trasformare in fattore di rischio quello che era un fattore di sicurezza, dobbiamo giustamente fare i conti con la realtà dei fatti”.
Come gestire, quindi, la vegetazione dove se ne dimostri davvero la necessità? “Su questo tema sono stati scritti interi manuali – afferma il dirigente Uisp – quindi non è certo possibile essere esaustivi, tuttavia va innanzi tutto tenuto presente che ad azioni di taglio selettivo (nel senso compiuto del termine) può essere associata una più ampia gamma di interventi locali sulla vegetazione. Nei tratti di attraversamento di centri abitati a rischio, il taglio selettivo degli esemplari arborei troppo alti o pericolanti (mantenendo la vegetazione allo stadio arbustivo, flessibile) accelera il deflusso delle piene, riducendo i livelli idrici e le esondazioni; in questi casi quindi l’intervento è effettivamente auspicabile. Il rinfoltimento della vegetazione nei tratti a monte dei centri abitati produce un effetto laminante delle piene che può compensare l’accelerazione dei deflussi conseguente al taglio selettivo.
Lasciando nei corsi d’acqua i tronchi dopo averne ridotto la pezzatura, in frammenti di misura tale da non costituire più pericolo di ostruzione dei ponti, si riduce il rischio alluvionale salvaguardando in gran parte almeno le funzioni ecologiche derivanti dalla presenza dei detriti legnosi in alveo. Ovviamente tutto questo deve assolutamente escludere la permanenza in golena di cataste di legna tagliata di grossa pezzatura che rappresenta effettivamente una bomba ad orologeria. In alternativa al taglio degli alberi, si possono installare in alveo dispositivi di intercettazione di tronchi e ramaglie a monte di ponti e altre sezioni critiche, per prevenirne l’ostruzione”.
“Va infine affrontata una riflessione nel merito delle modalità di intervento e del processo decisionale e che hanno permesso il verificarsi di una situazione limite fino ad ora portata avanti – conclude Zaccherotti – crediamo che uno strumento come il contratto di fiume possa rappresentare veramente un punto di partenza per una migliore gestione dei corsi d’acqua che non tengano conto solo di aspetti idraulici ma anche naturalistici, sportivi e sociali. Proprio per questo rilanciamo un appello al Consorzio Bonifica perché si attrezzi per portare avanti questo percorso fermo ormai da più di un anno”.