A legger le cronache, Grosseto parrebbe in preda alla sindrome degli anni ’80. Quando la città era ostaggio dell’eroina. Con una comunità in trincea, ma soprattutto incapace a trovare la plausibile chiave di lettura per un fenomeno di vasta portata, di fronte al quale la reazione altalenava tra il bigottismo e l’invocazione del pugno di ferro. Naturalmente contro il nemico esterno, l’eroina, importato entro i confini di un’enclave fino all’inizio dei ‘70 considerata “sana”. Sullo sfondo la colonna sonora di pezzi come Heroin, scritta da Lou Reed nel 1967, o Heroes di David Bowie (1977), che faceva da didascalia al film generazionale “Christiane F. – Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” (1981).
Allora era l’eroina. Oggi sono gli shottini alcolici o a base di cocaina – dall’inglese shot: colpo d’arma da fuoco – piuttosto che l’extasy o qualche altra diavoleria della chimica di sintesi. Il nuovo bengodi dei consumi giovanili di massa.
Oggi come allora il “nemico” viene percepito come esterno, nel senso di esogeno rispetto all’habitat autoctono. I nemici sono gli spacciatori che vengono da lontano, dal Marocco o dalla Tunisia. E sono nemici anche gli operatori che si occupano di disagio a titolo professionale o volontario, come quelli della Caritas. Che nel chiacchiericcio da bar e sui social vengono tacciati d’esser una calamita che attrae gli elementi corruttivi del tessuto sociale cittadino. È un atteggiamento da struzzo che bene ha messo in evidenza nella sua recente lettera aperta alla città don Enzo Capitani. Comandante supremo della Caritas diocesana, ma soprattutto prete di strada dal sopracciglio mefistofelico, avvezzo da trent’anni al disagio sul campo e non a quello percepito. Coscienza critica di una città molto autoreferenziale e compiaciuta nell’immaginarsi come moderna Arcadia della Toscana; tutta butteri, vino buono e schietta gente agreste. Un comportamento negazionista che, ha efficacemente sferzato don Enzo, rimuove i temi della responsabilità individuale e collettiva. «O vogliamo ancora credere che i luoghi dell’educazione e dell’aggregazione – scolpisce icastico nella suo ragionamento – siano attualmente immune dal problema dello spaccio? O vogliamo ancora credere che il centro città sia “devastato” solo da “forestieri” e non anche da alcuni nostri ragazzi, che si aggirano per le vie del centro saturi di alcool?».
Cosa dovrebbe fare dunque Grosseto per metabolizzare i fenomeni di degrado legati allo spaccio e al consumo diffuso di superalcolici, accettando finalmente l’idea di non essere a world apart (tanto per esibire una citazione cinematografica)? Risposte semplici, a dispetto della vulgata, non ce n’è. E comunque non valgono i butteri sulle Mura con annesso collettore d’escrementi equini. Né basterà la repressione tout court, che tanto gratifica gli urlatori da social.
Qualche strumento culturale utile ad affrontare un tema tanto spiazzante, lo fornisce la lettura di un breve racconto – Piccola città (appunti per una storia culturale dell’eroina a Grosseto) – contenuto nel recente volume “Una città aperta al vento e ai forestieri”. Debutto letterario del Collettivo Bianciardi 2020 – di cui sentiremo parlare – edito da Pensa Multimedia Editore nella collana Educazione & ricerca sociale.
Un cammeo, direbbero quelli eruditi, della storica grossetana all’estero (Roma) Vanessa Roghi, che con grazia sincretica riassume in poche considerazioni un pezzo della propria esperienza di vita legata all’incontro per interposta persona con la tossicodipendenza. Riflessioni che calate nella realtà grossetana odierna luccicano di valenza erga omnes, scomponendo gli stereotipi di una consunta rappresentazione del legame di causa effetto tra disagio e tossicodipendenza.
Poi ci sarebbero anche le scelte operative, magari ispirate alla logica della riduzione del danno. Che non vuol dire affatto alzare bandiera bianca di fronte al dilagare dello spaccio, né rinunciare a combattere sul terreno educativo, formativo e della responsabilizzazione delle coscienze. Ma più laicamente significa salvare la pelle a chi è stato risucchiato nelle dinamiche della tossicodipendenza o dell’alcolismo.
Per fare un esempio lontano da noi, ergo meno divisivo, in Inghilterra l’autorevole Advisory Council on the Misuse of Drugs (Consiglio consultivo sull’abuso delle droghe) ha recentemente proposto l’eroina gratuita su prescrizione medica, e “stanze del buco” gestite da personale sanitario. L’obiettivo è ridurre la media annua di 2500/3000 morti per overdose. Una strategia di riduzione del danno, basata sull’evidenza: procurarsi legalmente eroina e iniettarsela con aghi e siringhe sterilizzate, in un ambiente che rispetti norme igieniche e di sicurezza, alla presenza di infermieri, medici e psicologi specializzati, è meno rischioso per salute e incolumità personale che farlo, ad esempio, con mezzi di fortuna in un parco abbandonato.
Laicamente lo stesso approccio potrebbe essere esteso agli altri ambiti di abuso di sostanze. Ma c’è un “Ma” grosso come una casa. In una società che disconosce quotidianamente il principio di laicità, obnubilata dalle corride ideologiche, è molto più rassicurante pensare che i problemi li risolvano i poliziotti a cavallo. O magari i butteri, chissà?