GROSSETO – Buon agnello a tutti, ma non solo a Pasqua. E’ necessario destagionalizzarne il consumo per rilanciare un comparto della zootecnia che soffre una crisi dovuta a cause diverse. A dirlo è la Cia Toscana: dei 500 mila agnelli allevati e venduti in Toscana (oltre 3 mila allevamenti in Toscana con la prevalenza nelle province di Grosseto e Siena) nel corso dell’anno, il 40% avviene infatti in prossimità del periodo pasquale; un altro 30% in occasione del Natale e solo il restante 30% nel resto dell’anno. Troppo poco il periodo in cui si consuma la carne di agnello – secondo la Cia -; un settore che paga la crisi dei consumi, ma anche le abitudini alimentari del consumatore-medio che acquista agnello solo a Pasqua e a Natale, oltre alle scriteriate campagne mediatiche di matrice animalista. Rispetto allo stesso periodo del 2014 quest’anno i consumi di carne di agnello caleranno del 10%.
«E’ importante riuscire a destagionalizzare i consumi della carne di agnello – commenta Enrico Rabazzi, vicepresidente Cia Toscana -; è una carne magra che può essere mangiata con frequenza in tutte le stagioni dell’anno, non solo a Pasqua e a Natale. Bisogna far cambiare le abitudini dei consumatori. Ad esempio l’agnello non è presente nelle mense scolastiche (a differenza di carni bianche come pollo e tacchino), in questo senso anche un impegno da parte delle istituzioni toscane potrebbe essere utile, per il rilancio di una carne tradizionale e tipica di questo territorio e per i nostri allevatori».
I prezzi non sembrano essere remunerativi per gli allevatori toscani: 3,20 euro al kg (peso morto) è il prezzo medio, che per un agnello di 11 kg sono 35 euro: siamo al limite – sottolinea la Cia Toscana –, un prezzo minimo dovrebbe essere di 5 euro al kg, per far sì che l’allevamento sia remunerativo. Prezzi in continua discesa, visto che a Pasqua 2013, solo 3 anni fa, 1 kg di agnello veniva venduto dai 3,80 ai 4,40 €/kg. Ad aggravare la sofferenza del settore, anche le importazioni provenienti dall’Est Europa, in primis dalla Romania, da dove arriva il 35% degli agnelli che si consumano in Toscana, a prezzi stracciati (sotto i 3 euro al kg) che provocano un livellamento delle quotazioni di mercato. «Rispetto all’Italia – spiega Rabazzi – c’è differenza di normative. Pur essendo nell’UE, nell’Est Europa sono in ricevimento e avranno normative rigide come le nostre solo dopo il 2020. Il prodotto toscano significa anche sicurezza alimentare, oltreché qualità. L’importante è che il consumatore sia messo in condizione di poter scegliere ed avere la certezza della tracciabilità del prodotto in etichetta»
In questo senso è importante cercare il prodotto certificato, ovvero l’IGP (Indicazione Geografica Protetta) Agnello del Centro Italia, che garantisce il consumatore sull’origine e quindi sull’identificazione e rintracciabilità, «in cui ogni fase del processo produttivo è monitorata e documentata – spiega Rabazzi –; dall’allevamento, come sapere cosa ha mangiato e dove ha vissuto l’animale, fino alla vendita del prodotto»
E poi sono le polemiche degli animalisti a danneggiare il settore: «Campagne ipocrite e ideologiche – aggiunge – invitando i consumatori a non mangiare carne di agnello. Si gioca sulla pelle e sull’economia di migliaia di aziende zootecniche che sono già alle prese con una crisi di mercato e di consumi – e di costi di produzione crescenti – che dura da ormai troppi anni. Speculare sulla pelle degli agricoltori, utilizzando il musetto di un agnello è cosa quanto mai meschina. E’ l’ora di finirla».