Giulio Gasperini, il nostro lettore viaggiatore, è ripartito per una bellissima avventura nella poliedrica Instanbul la città che unisce oriente e occidente. Ecco il suo reportage a puntate per la nostra rubrica Capo Nord.
Instanbul, le mille e una notte che furono…
Sapete quella scena in “Il bagno turco”, il più bel film di Ferzan Ozpetek… sì, quella scena dove lui sta, solo, sprofondato in un sedile scomodo su un traghetto che scivola sul Bosforo, leggendo una lettera ritrovata della zia. Sapete di quale scena parlo no?! Di quella dove una voce fuori campo legge parole bellissime: “Istanbul, è quello che cercavo; sono arrivata da una settimana e già mi ruba il fiato, il sonno… Quanto tempo sprecato prima di raggiungerla! Ho la sensazione che mi stesse aspettando, silenziosa, mentre correvo dietro a una vita tanto faticosa quanto inutile. Qui le cose scorrono più lente e morbide, questo vento leggero scioglie tutti i pensieri e fa vibrare il corpo. Adesso finalmente sento di poter ricominciare”. Mentre intorno le rive del Bosforo, che miscelano Europa e Asia, se ne stanno placide e tranquille, inondate di sole. Ma anche quell’altra scena, quella finale, dove Marta, la moglie, se ne sta sul tetto dell’hamam ristrutturato, fuma una sigaretta su quello strano bocchino da dito e guarda lontano, carezza il profilo di Istanbul lontana, le cupole e i minareti della Moschea di Solimano, il quartiere di Galata lontano, oltre mare, con il vento leggero che pare l’attraversi tutta, rendendola pulita e pura, con una melodia rapsodica in sottofondo e un canto straziante che chiede di non dimenticare mai. Anche lei legge una lettera, lacerante nel suo senso di separazione e lontananza: “Qualche volta, al tramonto, mi prende la malinconia e poi all’improvviso arriva questo vento fresco e se la porta lontano. È un vento strano, che non ho sentito mai da nessun’altra parte. È un vento leggero, e mi vuole bene”.
Ecco, quella era la magia che cercavo anche io a Istanbul, quando ci sono andato. Era proprio quella la città che speravo di trovare. Peccato, invece, non averla trovata.
Anche il mio babbo è stato a Istanbul. Tantissimi anni fa. Erano gli anni ’70, la Turchia era diversa, nella Jugoslavia che lui attraversò in macchina c’era ancora Tito e probabilmente la globalizzazione non si era così impunemente intrufolata nelle pieghe della città-tra-due-mondi. Già, tra due mondi. Perché Istanbul si definisce subito per questo, nello specifico: per essere una città costruita su due continenti diversi, Europa e Asia. Senza valutare che, poi, la parte “europea” è tale solo per una questione puramente geografica e persino parecchio discussa, mentre invece amministrativamente e politicamente europea non lo è mai stata. Ma tant’è. Garba molto l’idea di un luogo che sia simbolo di una vicinanza così stretta ma anche così distante, di un’identità multipla ma comune. L’amara realtà è che la globalizzazione e l’unificazione di sentire e agire ha trasformato Istanbul in una città che non è più costruita su due mondi ma che è uguale, identica alle altre costruite in ogni altro altrove. Istanbul, oggi, è una delle tante. Magari con più potenzialità, con più effervescenza, con più prospettive (come accade ciclicamente a tutte), ma praticamente identica. Non si può neanche dire che si sia tutto occidentalizzato, perché oramai le due categorie, agitate in contrapposizione dai fautori della violenza culturale, sono soltanto delle teorizzazione: l’occidente non finisce più dove comincia l’oriente; entrambi sono confusi in un qualcosa che non ha più sapore.
E lo si capisce bene immergendosi nel Gran Bazar e ancora di più nel Bazar delle Spezie. Il Gran Bazar è piuttosto una cittadina affondata nella città, dall’architettura splendida e preziosissima, come la via Takkeçiler Sokak; è un affollarsi e affastellarsi di merci e colori, di scintillii e preziose rarità. O almeno così dovrebbe essere. Quello di Istanbul è oramai un centro commerciale: trovo negozi di borse con le vetrine in cui sono ordinatamente disposti gli articoli, luci al led e commessi in giacca e cravatta che aspettano dietro la porta a vetri. Non c’è più nessuno che insiste affinché si compri qualcosa, perché tanto oramai sanno che il turista prima o poi arriverà a comprare. Adesso devono soltanto rimanere in attesa. Non ci sono più i tesori da scovare, non c’è più un’autenticità da ricercare. Le due chiacchiere da scambiare col commerciante mentre si contratta sul prezzo: oggi cartelli che sfiorano quasi la minaccia avvertono che i prezzi sono fissi e che il turista stia attento alla fastidiosa abitudine di tirare il prezzo al ribasso. Esiste oramai anche un’APP, comodamente scaricabile sullo smartphone, che indica dove si trova il bagno più vicino. Non c’è più fantasia, né speranza per l’immaginazione.
Affascinanti si conservano i resti distratti degli han, i caravanserragli che di così tanta vita esplodevano soprattutto all’epoca ottomana, quando le strade erano lunghe e le soste non solo obbligate ma anche sperate. Ce n’è uno, bellissimo, in un angolo del Gran Bazar, chiamato Iç Cebeci Han (nella foto), dove ancora si vede il cortile, il portico sopraelevato, le scale ripidissime, la fonte d’acqua. Ora, sulla corte danno le botteghe, i laboratori, semplici porte cieche. Ma è delizioso fermarsi e immaginarsi il traffico di uomini e bestie, quel vociare frettoloso, quelle urla di irritazione ma chissà, magari anche di gioia per aver ritrovato un amico. Quel fare commercio che era anche relazione, scambio, distanza da colmare e raccontare.
Quegli spazi che profumavano ancora di più le spezie che, si sa, hanno già nel nome il ricordo di orienti estremi, di favole da mille e una notte, di lampade magiche e grotte misteriose. Il Bazar delle spezie è quel luogo dove sacchi di iuta contengono i colori di mille polveri diverse, che odorano e dipingono, che lasciano trapelare segreti millenari. E se ne fa man bassa, di solito, di queste spezie. Come se ci si fosse impossessarsi di un tesoro ricchissimo, più prezioso di ogni oro e di ogni gioiello scovato da Ali Babà. Senza contare che, a questo punto, ci si sbarra davanti un evidente luogo comune: perché le Mille e una notte, Ali Babà, i quaranta ladroni sono tutte storie di Baghdad, di un oriente ben più remoto e diverso. Ma tant’è. Con queste sensazioni siamo arrivati e sono queste che premono per avverarsi, in questa città il cui nome da anni rotolava sulla lingua e nella mente. Ma entrare nel Bazar delle spezie, quello situato a fianco della Moschea Nuova, nel quartiere di Eminönü, perde immediatamente la sua pregiudizievole mania quando vedi la prima bottega di caviale russo. E poi una seconda, e una terza, e poco lontane la quarta, e la quinta, e ancora la sesta. Negozi splendenti, tirati a lucido, specchianti. Negozi che non dovrebbero per definizione stessa trovare spazio in un bazar, quanto piuttosto in un centro commerciale. Negozi che, oramai, si collocano in un contesto completamente cambiato, adeguato, svilito nella sua originalità. La permanenza di prototipi tradizionali sarebbe probabilmente fin troppo manierata, in questa contemporaneità, ma anche il suo totale annichilimento è sgomentevole. Dopo il primo moto di ribellione a questo deturpamento, arriva la considerazione del trovare merce russa in Turchia. Considerazione alimentata ancora di più quando si decide per una crociera in giornata sul Bosforo, quel braccio di mare che pare un fiume e che unisce il Mar Nero con il Mar di Marmara e attraverso lo stretto di Dardanelli con il Mar Egeo: tutti nomi grondanti storia antica e greca, nel particolare. Pensando a quell’Ovidio, esiliato da Augusto, che morì languendo di malinconia sulla rive del Mar Nero, oramai qualche millennio fa.
Il Bosforo, oggi, è sorprendente; principalmente per quanto è inurbato e cementato. Case e ville ovunque, su entrambe le sponde, sia quella europea che quella asiatica. Ville splendide, peraltro; che una voce registrata di un’audioguida, in un perfetto e scandito italiano, nomina una a una, raccontando persino storie divertenti e curiose: come quella di Hıdiva Sarayı, elegantissimo esempio di rococò, che oggi ospita il Consolato egiziano. Edificata dall’architetto italiano Raimondo D’Aronco, famosissimo in Turchia, era di proprietà di una certa Amina Elhami, madre dell’ultimo chedivè d’Egitto, Abbas Hilmi II. La donna, pur essendo tale, godeva nell’impero ottomano del titolo di Pascià. Quando Atatürk, primo presidente della moderna Turchia, annullò tutti i titoli nobiliari dell’antica aristocrazia, la donna si arrabbiò a tal punto da lasciare in eredità la sua dimora non più allo stato turco, come era sua prima intenzione, ma allo stato egiziano, per farla diventare la sua sede diplomatica. Andò così, più o meno. Ma poi la riva continua a scorrere, e la nave continua a scivolare sulle acque fredde, arrivando vicino allo sbocco nel Mar Nero. Ed è qui che la Russia torna a occuparmi i pensieri, me la immagino un po’ prepotente dall’altra parte del mare, perché il Bosforo è arato in continuazione da petroliere enormi, sporche, dall’aspetto quasi sofferente. Capisco che le rotte commerciali non sono sempre le stesse, ma che ce ne sono di inedite. Perché ogni angolo di mondo ha vicini diversi, e con loro bisogna tessere rapporti di vicinato.