Torna l’appuntamento con la rubrica de IlGiunco.net “Hello Web, la comunicazione al tempo di internet”: Questo può accadere anche senza fare nomi purché sia riconoscibile almeno a due persone la persona offesa.
a cura di Marco Gasparri*
Chi parla male di una persona su Facebook, senza nominarla direttamente, ma indicando particolari che possono renderla identificabile, va incontro a una condanna per diffamazione. Lo dichiara senza giri di parole la prima sezione penale della Cassazione che ha annullato con rinvio l’assoluzione, pronunciata dalla Corte militare d’appello di Roma, nei confronti di un maresciallo della Guardia di Finanza, che, sul proprio profilo Facebook, aveva usato espressioni diffamatorie nei confronti del collega che lo aveva sostituito in un incarico.
Nello specifico il finanziare aveva pubblicato nei sui «dati personali» su Facebook la frase «attualmente defenestrato a causa dell’arrivo di collega sommamente raccomandato e leccaculo…», aggiungendo quindi un’espressione volgare riferita alla moglie di quest’ultimo.
Per la frase incriminata, che aveva offeso la reputazione del maresciallo designato al posto suo al comando della compagnia, l’imputato era stato condannato dal tribunale militare di Roma a tre mesi di reclusione militare per diffamazione pluriaggravata. In Appello era stato assolto per insussistenza del fatto, poichè l’identificazione della persona offesa risultava possibile soltanto da parte di una ristretta cerchia di soggetti rispetto alla generalità degli utenti del social network, non avendo l’imputato indicato il nome del suo successore, la funzione di comando in cui era stato sostituito, o dato alcun riferimento cronologico.
Nel ricorso contro l’assoluzione, il Procuratore Generale Militare ha invece evidenziato come, al contrario, la pubblicazione su Facebook abbia determinato la conoscenza delle frasi offensive da parte di più «soggetti indeterminati iscritti al social network e che chiunque, collega o conoscente dell’imputato, avrebbe potuto individuare la persona offesa». La prima sezione penale della Cassazione (sentenza 16712) ha riconosciuto come la frase fosse «ampiamente accessibile, essendo indicata sul cosiddetto ‘profilò’ e l’identificazione della persona offesa favorita dall’avverbio «attualmente» riferita alla funzione di comando rivestita.
Tra l’altro «il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico» ma la «consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza anche soltanto di due persone».
In realtà la Cassazione ha semplicemente applicato il Diritto mentre la Corte di Appello che lo aveva assolto probabilmente ha solo peccato di ignoranza su come funzionano i social. Un social network è una “piazza aperta”, un luogo ove le informazioni possono essere lette e condivise da qualunque altro utente. Tanto più che, nel caso in questione, il maresciallo non aveva neppure protetto la propria bacheca rendendone possibile la libera consultazione da parte di chiunque.
Una frase denigratoria pubblicata su Facebook, su Twitter o su qualunque altra piattaforma online può costituire quindi reato anche nel caso in cui “non si facciano nomi”. È sufficiente che il destinatario dell’offesa sia riconoscibile da una più o meno ampia cerchia di persone sulla base delle informazioni “di contorno” che l’utente condivide online. In altre parole, se è noto che l’utente lavora in un certo luogo, è facile stabilire a chi sono dirette le sue frasi diffamatorie nel caso in cui, ad esempio, queste siano rivolte ad un collega.
Marco Gasparri è Direttore di Studio Kalimero, agenzia di comunicazione e marketing. Si occupa da sempre di innovazione e di divulgazione di nuovi media e tecnologie.