a cura di Giulia Carri
DANIMARCA – Francesco Lescai, 37 anni di Grosseto. Professore Associato di genomica e bioinformatica presso il Dipartimento di Biomedicina dell’Università di Århus, Danimarca.
Come sei arrivato in Danimarca?
“Tutto è cominciato quando mi sono trasferito a Londra nel Gennaio 2010 e dove sono rimasto 3 anni e 2 mesi. In quegli anni sono stato coinvolto nello sviluppo della piattaforma per l’analisi del genoma umano. Era un progetto necessario all’Università ed io ero responsabile dell’analisi bioinformatica dei dati.”
Dove lavoravi prima di andare a Londra?
“Mi sono laureato a Bologna. Lì ho conseguito il dottorato nel 2006 e sono rimasto più di dieci anni, come tanti miei colleghi, nella speranza, alla fine, di lasciare la condizione di precariato e entrare definitivamente come ricercatore all’ Università. Questa cosa non è mai avvenuta. Durante gli anni bolognesi ho anche partecipato al coordinamento dei ricercatori precari, per denunciare e cercare di cambiare la situazione. Il mio ultimo contratto era per un progetto di ricerca triennale, che in realtà è stato interrotto al secondo perché non c’erano più soldi per portarlo avanti. Per me quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. A Bologna, per l’Università, ho lavorato e realizzato tanti progetti, tra cui una piattaforma di analisi genetiche insieme con l’ospedale. La professionalità che stavo costruendo dava risultati importanti. La chiusura del progetto di ricerca al quale lavoravo mi ha fatto capire che se accadeva a me poteva accadere a chiunque e che anche per la ricerca in medicina significava non vedere il futuro, rinunciando a investire in professionalità che oggi invece sono fra le più richieste del settore. E’ stato uno shock, ma anche una grande molla per andarmene.”
Che cosa hai fatto a quel punto?
“Ho ragionato e mandato curriculum per tre posizioni specifiche che mi interessavano molto, mi hanno chiamato in tutte e tre le Università e alla fine ho scelto di andare alla University College London, UCL, perché è la quarta università più importante del mondo dopo il MIT, Harvard e Cambridge. Ho avuto il lusso di scegliere e l’ho fatto.”
Com’è stato il cambiamento?
“E’ stato quasi commovente. Professionalmente è stato come vivere quello che in pratica a Bologna avevo solo sognato. Finalmente sentivo di fare il mio lavoro, che la mia giornata era spesa al 100% nella ricerca invece che anche tutto il resto come accadeva in Italia.”
Che cosa intendi?
“Intendo che in Italia spesso potevo fare ricerca solo al 40% perché il restante 60% dovevo impiegarlo in burocrazia o politica accademica per avere gli strumenti, per esempio, o i soldi. Questo è assurdo ma reale. A Londra, come adesso in Danimarca, io mi occupavo solo del mio lavoro e chi di dovere si occupava di amministrazione. Come dovrebbe essere. Questo faceva si che lavorassi paradossalmente meno ore, producendo il doppio.”
Gli anni londinesi sono stati belli?
“A parte la città, che rimane per me una delle più belle e divertenti del mondo, professionalmente ho avuto molte soddisfazioni. Ho cominciato come ricercatore associato in analisi del genoma umano e dopo un anno e mezzo mi hanno promosso a senior e sono andato a lavorare al centro di ricerca dell’Ospedale Pediatrico della stessa Università, che è il più grande d’Europa. Quella è stata un’esperienza molto più applicata alla medicina, diversa e molto bella.”
Il fine della tua ricerca è prevenire o curare?
“Entrambi. L’istituto di ricerca in cui lavoro adesso in Danimarca è dedicato allo studio delle malattie psichiatriche, in sostanza io ne studio le cause genetiche per prevenirle e poi curarle nel miglior modo possibile. Quelle psichiatriche sono malattie con un tasso di ereditarietà molto elevato, soprattutto autismo e schizofrenia. Solo studiando il genoma si possono fare progressi per la loro cura. Gli studi ci sono, ma la strada è ancora lunga, per questo la ricerca è fondamentale.”
Perché il passaggio in Danimarca?
“Perché mi piaceva il progetto nel quale adesso lavoro. La Danimarca è uno dei pochi paesi al mondo che ha una banca del genoma di buona parte della popolazione. Ad ogni cittadino, a momento della nascita, viene prelevato un campione di sangue e depositato in una biobanca. Questa cosa è unica e preziosa per la ricerca perché ci permette di lavorare sul patrimonio genetico originario di ogni individuo al suo stato più puro e incontaminato, la nascita. Adesso lavoro sull’analisi del genoma di 17.000 bambini affetti da Autismo. Non è stato facile vincere questo posto, di Professore associato, ma alla fine hanno scelto me tra 151 ricercatori da tutto il mondo.”
Come ti trovi a Århus?
“Direi bene. La città è molto più piccola di Londra, che un po’ mi manca, ma ricca culturalmente e del tutto funzionale. La qualità della vita è molto buona. E’ stato un passaggio professionale importante, essere professore era una delle cose che desideravo. Anche da un punto di vista sociale mi trovo bene, le dinamiche di socializzazione sono simili a quelle inglesi quindi non è stato difficile adattarmi. La funzionalità di questo paese è impressionante, mi ricorderò sempre la prima volta che sono andato da un medico, dopo la visita mi aspettavo una ricetta e invece mi hanno mandato a casa spiegandomi che era già tutto online e dovevo solo andare in qualunque farmacia con il mio tesserino per avere le mie medicine. Anche del cibo non mi lamento, non sono mai uscito insoddisfatto da un ristorante. I danesi sono molto attenti a condurre un sano stile di vita e questo mi piace molto.”
Parlando di Maremma, torni spesso? Cosa ti manca?
“La mia famiglia e alcuni cari amici, quelli sopravvissuti agli anni e alla distanza, sono in Maremma, quindi torno per vedere e godere dei miei affetti quando posso. La lontananza mi fa apprezzare il tranquillo e salutare stile di vita che abbiamo, oltre lo scontato bel tempo ovviamente. Parlando di cibo invece mi manca la cultura e la storia che ogni piatto italiano porta con sé, quell’identità culinaria che ci appartiene ed è unica al mondo.”
Se ti offrissero il lavoro dei tuoi sogni, torneresti in Italia?
“In realtà questo è accaduto mentre ero a Londra, ed ho rifiutato una posizione che oggettivamente era difficile da rifiutare. Il motivo è stato duplice: prima di tutto sentivo di non aver esaurito il mio tempo in Inghilterra, sia professionalmente sia personalmente. L’idea poi di tornare a scontrarmi con il sistema italiano che già conoscevo, ha scoraggiato il mio ritorno. In 10 anni di serio e duro lavoro in Italia non sono riuscito ad uscire dal precariato. In tre anni e mezzo all’estero sono diventato professore associato. Recentemente ho conseguito l’abilitazione scientifica nazionale come professore associato anche in Italia, ma su un probabile ritorno ho tanti dubbi ancora. Sì vedrà.”