Continua il viaggio in Madagascar della lettrice Chiara Ghilardi nella rubrica de IlGiunco.net Capo Nord, per tutti coloro che amano viaggiare e confrontarsi con differenti culture, odori, sapori e le tante differenti opportunità che offre il mondo.
7 giorno Martedì 26 Novembre
La nottata io e il mio compagno la passiamo svegli perché il mio dolore alle ossa è insopportabile: da non riuscire a stare sdraiata. La febbre si alza e mi rendo subito conto che è un’influenza diversa da quella a cui sono abituata ma non sapevo quale delle medicine che ci siamo portati dall’Italia prendere visto che stavo già prendendo il mio solito antistaminico e la profilassi per la malaria, così appena è mattina chiamo il medico dell’assicurazione che è disponibile ventiquattro ore su ventiquattro che mi esorta a correre subito all’ospedale per escludere la malaria e vedere se mi possono aiutare ad alleviare la febbre. Il mio compagno preso dall’ansia mi prende in braccio, mi carica in macchina e andiamo in cerca dell’ospedale, senza sapere dove fosse esattamente. Il caldo dell’auto però aumenta la febbre e io quasi non riesco a stare in piedi. Alla fine troviamo l’ingresso dell’ospedale e ci dirigiamo verso le urgenze dove un medico si prende subito cura di me. La prima impressione non è quella di essere dentro una struttura medica ma quasi in un centro sociale, di quelli che frequentavamo durante il periodo dell’università a Bologna. L’interno di queste strutture tutte al piano terra è davvero rovinato e ci rendiamo subito conto che gli arredi sembrano quelli che abbiamo visto nei film dell’immediato dopo guerra in Italia. Probabilmente sono le infrastrutture che noi europei scartiamo e poi mandiamo in Africa in forma di aiuti internazionali. Nonostante la struttura fatiscente però i medici ci sembrano preparati e mi danno subito antibiotico, paracetamolo per fare scendere la febbre, Sali minerali e vitamina C per farmi riprendere un po’ di forza. La somministrazione dei medicinali però non funziona come da noi: il dottore scrive una sorta di ricetta con la quale l’accompagnatore del paziente deve andare alla farmacia dell’ospedale e acquistare le medicine per curarlo. In poche parole, se non hai i soldi, non ricevi cure. Ecco svelato il perché di un tasso di mortalità così alto. Nel frattempo mi prelevano il sangue per fare l’esame della malaria ed è sempre il mio compagno l’addetto alla consegna al laboratorio analisi e sorpresa delle sorprese, il tecnico del laboratorio lo invita a guardare insieme a lui nel microscopio il campione del mio sangue: in Italia non sarebbe mai successo!! Fortunatamente non è malaria e dopo circa quattro ore di flebo mi sento meglio e sono pronta per tornare in hotel. La sera arriva una macchina di turisti e noi li riconosciamo: li avevamo già incontrati nell’hotel a Fianarantsoa e in un ristorante lungo la strada, e dopo il terzo incontro casuale pensiamo sia arrivato il momento di cenare insieme. Sono una coppia di francesi sulla settantina che, in pensione da qualche anno, girano l’Africa soggiornando nelle strutture religiose per aiutare le suore con i bambini e con l’insegnamento del francese. Passiamo una bella serata in compagnia, ma vista la giornata all’ospedale e il febbrone che mi ha colto di sorpresa ce ne andiamo subito a dormire.
8 giorno Mercoledì 27 Novembre
I dottori dell’ospedale mi hanno consigliato un po’ di riposo per riprendermi e visto che non mi sento tanto in forma decidiamo di passare la giornata in città e goderci un po’ di relax, dopotutto la nostra è una vacanza! La mattina prendiamo la macchina e andiamo fino al porto dove, all’interno dei locali dell’Università di Tulear si trova il museo marino più interessante di tutto il Madagascar. Vediamo animali marini di tutti i generi: pesci, molluschi, aragoste, anguille, animali preistorici, tartarughe di mare ma anche conchiglie, conchiglie fossili, coralli e alghe ma la cosa che ci sorprende maggiormente si trova all’esterno del museo ed è lo scheletro originale di una balena lunga non so quanti metri! Terminata la visita al museo facciamo una passeggiata ai mercatini artigianali e al mercato delle conchiglie per continuare la scelta dei souvenirs da portare a parenti e amici e pranziamo in un ristorante sul lungomare per poi tornare in hotel e farci una dormitina: sto meglio ma non sono ancora al massimo delle mie forze.
Nel pomeriggio decidiamo di andare a prendere un gelato alla “Gelateria italiana”, un bar gestito da un veneto. Ci fermiamo un’oretta a chiacchierare con Stefano, il simpatico proprietario che ci racconta del Madagascar e di come la vita lì sia difficile e ci consiglia di fare un piccolo cambio rispetto al nostro programma e di andare a vedere Anakao e soggiornare all’Auberge Peter Pan, un caratteristico hotel gestito da due ragazzi della zona del Lago Maggiore. Anakao è raggiungibile in barca la mattina da Tulear perché per percorrere l’unica pista di sabbia che porta al villaggio sono necessarie circa quattro ore di viaggio (per coprire una distanza di nemmeno cinquanta chilometri). Decidiamo di partire venerdì mattina perché il giorno seguente avevamo previsto di andare al villaggio di Ifaty, a nord di Tulear. La sera torniamo in hotel e a cena chiediamo ad Angelo, uno dei camerieri, di accompagnarci e mostrarci la strada per Ifaty e ci accordiamo sul suo compenso di 25.000 Ariary (ca. 8 €).
8 giorno Giovedì 28 Novembre
Partiamo alle 7 per andare a Ifaty e finalmente ci armiamo di costume, crema solare a telo: abbiamo proprio voglia di passare una mattina in spiaggia e fare un bagno nell’oceano. Uscendo da Tulear in direzione nord ci ritroviamo nella periferia della città che è formata da un insieme di baracche di lamiera circondate da montagne di spazzatura e ci viene un po’ di tristezza: un paesaggio così bello rovinato dalla maleducazione dell’uomo. Non è colpa di questa gente però. Le bottiglie di plastica e di vetro sono state sicuramente introdotte dai colonizzatori e siamo noi a non aver spiegato loro che poi vanno anche smaltite e riciclate. La pista di sabbia che conduce al villaggio costeggia l’oceano con ricche foreste di mangrovie, tipici alberi che vivono nei terreni paludosi e affondano le radici nell’acqua che, essendo mattina è molto ritratta a causa della bassa marea. La strada (se possiamo chiamarla così) è sconnessa tanto che ogni tanto incontriamo qualche camion che è rimasto insabbiato tra le buche. Angelo, il nostro cameriere/guida, non parla molto bene francese, ma ci racconta che le piccole casette di legno che vediamo al bordo della strada sono in vendita per la modica somma di quaranta euro! Quando arriviamo a destinazione siamo un po’ spaesati perché è la prima volta che facciamo tappa in un vero villaggio. Fino ad ora ci eravamo sempre fermati nelle città, dove la vita è molto diversa. Gli abitanti qui sembrano rendere pienamente onore al motto del Madagascar “Mora-Mora”, sembra che non facciano niente oltre che stare seduti a chiacchierare con gli amici nell’attesa del pranzo e anche chi lavora (i pescatori e i “negozianti”) sembrano godere del tempo come noi occidentali non sappiamo fare più da tanto.
Siamo diretti all’hotel ristorante Chez Cecile, una sorta di stabilimento balneare sulla spiaggia con qualche bungalow e i tavoli sotto un porticato di legno. Ci sono anche delle sdraio e noi ne approfittiamo per appoggiare le nostre cose e andare a fare il bagno. Durante la mattinata vediamo tanto movimento sulla spiaggia: i bimbi che si esercitano con la piroga per la pesca, donne che ci propongono massaggi e prodotti dell’artigianato locale e pescatori che rientrano dal mare con il pescato locale. A un certo punto si avvicina un ragazzo che si presenta come una delle guide certificate del villaggio e si occupa di accompagnare i turisti a fare snorkeling, per il giro in piroga e alla foresta dei Baobab. E’ vero che i pesci che ci sono in Madagascar da noi non esistono e che non abbiamo la barriera corallina ma pensiamo che snorkeling lo possiamo fare anche a casa nostra, mentre vedere un Baobab quando ci ricapita?
Certo non pensavamo che vedere la foresta sarebbe stato così faticoso. Partiamo all’una, sotto il sole cocente su un carretto trainato dagli zebù insieme alla guida. Dopo circa un quarto d’ora di strada sullo scomodo carretto, ci addentriamo nella foresta e cominciamo a vedere i primi esemplari di piante. Sono enormi, ma meno alti di quello che ci aspettavamo. Scopriamo che qui ci sono quattro specie di Baobab: i Baobab bottiglia, i Baobab carota, i Baobab innamorati e i Baobab famiglia, ma anche Aloe vera, varie tipologie di cactus e uno strano albero di cui non conosco il nome che presenta una corteccia simile alla seta, sia al tatto che alla vista.
Al rientro ci accorgiamo che la marea è salita e che le Mangrovie, delle quali la mattina si vedevano le radici a filo della sabbia, sono completamente coperte dal mare. Arriviamo all’hotel stanchi ma abbiamo una tappa da fare a Tulear: il ristorante “Corto Maltese” gestito da Beatrice e Renato, dove abbiamo mangiato davvero bene!
9 Giorno Venerdì 29 Novembre
Anche questa mattina tocca alzarsi presto…facciamo colazione e andiamo al porto di Tulear dove alle 9.00 abbiamo appuntamento all’ ”imbarcadero”, il punto in cui si prendono le navette per il paese di Anakao. Per non rischiare di perdere la barca ci facciamo trovare lì un quarto d’ora prima ma ci dicono subito che partiremo intorno alle 10.00, così prendiamo i biglietti e ci mettiamo ad aspettare nel casotto del Peter Pan, l’hotel in cui alloggeremo ad Anakao. Ogni hotel del villaggio ha il proprio casotto con foto, descrizione delle attività e descrizione del luogo per invogliare ad andare da loro i turisti che si accingono a prendere la barca e che non hanno ancora prenotato il posto letto.
Intorno alle 10.00 ci chiamano per partire e ci fanno salire sul solito carretto trainato dagli zebù e non capiamo proprio perché….noi dovevamo prendere una barca!! Dopo poco arrivano altri due turisti sull’ottantina e gioia per le nostre orecchie: sono italiani, bolognesi per la precisione. Ci spiegano che fanno sempre questo tragitto perché il loro figlio ha una piccola struttura alberghiera ad Anakao e che è normale salire sul carretto perché la marea è bassissima e in questo modo i clienti viaggiatori non devono immergere i piedi nell’acqua per arrivare alla barca. Dopo circa 300 metri di bassa marea saliamo sulla vedetta e in un’ora raggiungiamo Anakao ma i nostri concittadini scendono prima di noi perché saranno ospiti nell’hotel del figlio. Noi proseguiamo e arriviamo finalmente al Peter Pan, il posto di cui avevamo tanto sentito parlare ma qui non c’erano carretti trainati dagli zebù e quindi togliamo le scarpe e ci infiliamo nell’acqua per raggiungere la riva. Ci accoglie Dario, uno strambo italiano con lo smalto blu alle unghie e il mascara in coordinato che ci accompagna al nostro bungalow. L’auberge è costruito sulla spiaggia, non c’è acqua corrente e nemmeno elettricità quindi Dario ci spiega che per fare la doccia dobbiamo riempire il secchio e fare la stessa cosa per tirare l’acqua dopo essere andati al bagno. Se abbiamo bisogno di caricare il telefono invece lo possiamo fare dall’ora del tramonto fino a quando andiamo a letto nella struttura principale, dove c’è il ristorante, servito da un generatore. Il Peter Pan è un luogo incontaminato e capiamo subito perché ci hanno consigliato di fare questa tappa…è stupendo! I bungalow e la zona ristorante sono state costruite come nel villaggio del film di Peter Pan e l’hotel è separato dalla spiaggia da una staccionata di matite colorate. L’oceano è trasparente e davanti a noi c’è l’isola di Nosy Ve (da distinguere dalla più famosa Nosy Be), l’isola benedetta dove in spiaggia non si possono fare i bisogni, non si può costruire ed è conservata l’unica specie al mondo di “fetone dalla coda rossa”. Purtroppo, dovendo partire la mattina seguente molto presto non riusciremo ad andarci perché nel pomeriggio, a causa della marea e del vento, non si può uscire in mare.
La giornata passa tra bagni, momenti di relax all’ombra dei gazebo di paglia in spiaggia e chiacchiere con Dario e Valerio, i proprietari che ci allietano con le leggende e le storie del Peter Pan. Ci raccontano di essere stati rapinati da una banda del villaggio e che da quel momento hanno assoldato tre guardie di cui una armata per essere sempre protetti, ci mostrano le belle recensioni dell’auberge su tutte le guide cartacee e scopriamo di essere arrivati proprio per il compleanno del mitico Dario. Ci raccontano anche che una volta acquistato il terreno hanno dovuto fare un rito di passaggio per essere accolti nel villaggio: hanno acquistato uno zebù, l’hanno macellato, ne hanno sparso il sangue sulla loro spiaggia e poi hanno donato un pezzo ad ogni famiglia del villaggio. Al calare del sole ci raggiungono anche gli altri pochi ospiti dell’hotel (eravamo una decina in tutto, tutti italiani) e decidiamo di mangiare insieme per festeggiare Dario. Così, tra brindisi, la torta e tante belle chiacchiere è passata la serata: una delle migliori della mia vita. Scoprire posti nuovi è emozionante, ma quando hai anche la possibilità di scoprire persone nuove, conoscere nuove storie, nuove avventure ed esperienze, tutto diventa ancora più entusiasmante. Andiamo a letto contenti e stanchi.
10 giorno 30 Novembre
La sveglia suona presto anche se avevo già aperto gli occhi con le prime luci dell’alba, così alle 5.30 di mattina decido di uscire per una passeggiata sulla spiaggia pensando di godermi il silenzio ma mi ero dimenticata che qui le persone si svegliano ancora con il canto del gallo e quindi trovo già i bimbi che giocano nell’acqua, i pescatori che preparano le piroghe per uscire in mare. Il senso di pace, gioia e relax che mi ha donato questa passeggiata rimarrà sempre nei miei ricordi.
Facciamo colazione e dopo aver salutato tutti i nostri nuovi amici saliamo sulla barca che era tornata a prenderci alle 7.00. Il ritorno è un po’ più lungo dell’andata a causa del vento contrario e quindi arriviamo a Tulear intorno alle 9.30, dove un altro carretto di zebù ci aspetta per riportarci all’ ”imbarcadero”. Ci rimane solo questa giornata prima di riprendere la macchina per tornare ad Antananarivo e salire sull’aereo e visto che è troppo tardi per fare qualsiasi altra gita, ce la prendiamo con calma e ci andiamo a riposare in hotel, dove dormiamo un po’ prima del pranzo. Torniamo a mangiare alla Bernique, il piccolo ristorante di legno sul lungomare che ci era piaciuto tanto, facciamo un giretto a piedi e torniamo in hotel per fare una doccia e preparare le valigie così l’indomani saranno già pronte. Decidiamo di cenare al Jardin de Giancarlo, un ristorante gestito da un italiano. Il posto più che sembrare un ristorante, ricorda vagamente un museo: pieno di quadri e artigianato locale, siamo serviti da un personale gentile e accolti da Giancarlo, l’eclettico proprietario che ci fa divertire con la sua simpatia. Il cibo è buono e conveniamo sul fatto che noi italiani in cucina non veniamo battuti da nessuno! Dopo la cena andiamo a salutare Stefano della gelateria che era in compagnia di Beatrice (la proprietaria del Corto Maltese) e ci perdiamo in chiacchiere fino a mezzanotte. Ci raccontano altri aneddoti sulla vita e sul lavoro in Madagascar. Beatrice è arrabbiata perché uno dei suoi cuochi ha messo nel microonde una forma di formaggio pensando che fosse qualcosa da scongelare e non perché ci vuole del tempo prima dell’arrivo delle consegne dall’Italia e presa dalla rabbia continua raccontandoci un’esperienza avvenuta qualche anno prima: un giorno tre dei suoi dipendenti le dicono che non sarebbero più andati a lavorare se una loro collega continuava a lavorare lì. Salta fuori che questa signora una sera, dopo la chiusura del ristorante è passata per chiedere dell’acqua al guardiano, i colleghi sostenevano che lei avesse fatto un grigri (una sorta di maledizione, qualcosa di simile al malocchio) e che adesso il ristorante fosse sotto l’effetto della malvagia di questo incantesimo. Beatrice presa dal panico e dall’incapacità di gestire l’assurdità della situazione, prende da parte la dipendente e si assicura che volesse effettivamente solo dell’acqua. Per riuscire a fare tornare al lavoro tutti i cuochi si è dovuta inventare una bella storia. Il giorno seguente è andata in cucina e ha assicurato i dipendenti che i grigri che facciamo in Italia, vista la nostra lunga tradizione, sono più potenti di quelli del Madagascar e che ne aveva castato uno per sconfiggere la maledizione lanciata dalla sua dipendente. Non avremmo mai pensato che cose del genere potessero accadere davvero!
Si lamentano dell’ignoranza e della barbaria dei malgasci dandoci la versione della storia arrivata poco prima della nostra partenza per il Madagascar. Tre europei sono stati aggrediti e ammazzati per traffico di organi a Nosy Bè: questo è quello che si sa in Italia, ma lì la storia è ben diversa e non è questo il luogo per scendere nei macabri particolari.
Dobbiamo correre a dormire: domani ci aspettano cinquecento chilometri in macchina e noi siamo davvero stanchi e indeboliti dalla “Turista”, il virus che ammala qualsiasi viaggiatore che passi per il Madagascar e del quale non sto a descrivervi i sintomi!
11 giorno 1 dicembre
La nostalgia è un sentimento che si prova quando qualcosa è passato ma noi già ci svegliamo con la tristezza di chi deve andare via, saldiamo il conto aperto all’Escapade, riempiamo il serbatoio di gasolio e partiamo. Il viaggio è a ritroso ma siamo comunque contenti di ripassare per i paesaggi ameni che abbiamo visto all’andata ma siamo stanchi, stanchi davvero e siamo obbligati a fare qualche pausa in più, con la paura di non arrivare a Fianarantsoa, in tempo prima che il sole cali. Propongo al mio compagno di prendere il suo posto alla guida per farlo riposare un po’ ma lui si rifiuta perché la strada è pericolosa e gli altri automobilisti sono spericolati. Ci fermiamo per la colazione e poi per il pranzo all’hotel Nirina, dove abbiamo mangiato anche all’andata per gustare di nuovo un piatto tipico della cucina malgascia alla modica cifra di 4 € per due persone.
Dopo qualche chilometro siamo abbagliati e infastiditi dall’odore di bruciato, vediamo una nuvolona di fumo e ci guardiamo con gli occhi sgranati dalla paura. Appena girata la curva, al bordo della strada e a pochi centimetri da noi c’è un camion in fiamme e un sacco di gente in mezzo alla carreggiata, intorno c’è il nulla. Noi siamo preoccupati, stanchi e non potremmo aiutare quelle persone e quindi passiamo in mezzo alla nuvola di fumo e andiamo oltre. In Madagascar non ci sono né il 115 né il 118 da chiamare e pensiamo a quelle persone che dovranno aspettare il passaggio di un altro camion che li accompagni, con la speranza che abbia dell’acqua per spegnere l’incendio.
Dopo una svariata serie di piccole soste per non fare addormentare il mio compagno/autista, arriviamo finalmente a Fianarantsoa ma prima di metterci a letto, chiediamo alla reception di farci trovare per cena il Kuba, il dolce tipico del Madagascar fatto di riso e foglie di banano perché ancora non eravamo riusciti a provarlo ma ci spiegano che è difficilissimo trovarlo perché viene cotto solo la mattina e poi venduto nelle bancarelle in giro per la città. Noi decidiamo di pagare in più per farcelo andare a prendere e mangiarlo. Tanto ormai il virus l’avevamo già preso…che altro poteva succedere?
Ci facciamo una doccia, scendiamo a mangiare qualcosa e torniamo subito a letto. Ormai non abbiamo più forze per fare nulla e poi la sera è sconsigliato uscire da soli.
12 giorno 2 Dicembre
Partiamo intorno alle 7.30 perché dobbiamo essere all’aeroporto di Antananarivo entro le 18.00 e ci aspettano altri 400 km di strada in condizioni pessime, ancora peggiori di quella percorsa il giorno precedente e né io né il mio compagno siamo in forma. Fortunatamente, a differenza dell’andata, non troviamo la pioggia e quindi riusciamo ad andare un po’ più veloce ma superiamo difficilmente gli 80 km all’ora. Ci fermiamo ad Ambositra per fare una pausa e continuiamo fino ad Antsirabe, una grande città che si trova a circa due ore di auto dalla capitale, in cerca di un ristorante per mangiare ma ormai sono le 14.00 ed è difficile trovare un posto ancora aperto a quest’ora. Dopo circa mezz’ora in giro per la città troviamo uno strano edificio che ci sembra un hotel della Transilvania: un posto orribile a dire la verità (tanto che all’andata l’avevo fotografato per la sua bruttezza!). Mangiamo un riso alla cantonese che sembra strano in Madagascar ma dovete sapere che oltre alle 18 etnie presenti nell’isola, i cinesi sono considerati la diciannovesima: gli orientali hanno colonizzato l’isola ancora prima di noi europei, portandone tradizioni e cucina. Al tavolo accanto a noi c’è un italiano, un prete che lavora da sei anni in una missione e che comincia a farci strani discorsi sulla fede, su Dio e sul matrimonio. Era talmente tanto contento di aver trovato due italiani con cui parlare che non smetteva più. Siamo riusciti a ripartire solo alle 15.30, in ritardo netto sulla nostra tabella di marcia: Mahefa (l’omino che ci ha noleggiato la macchina) ci aspettava alle 16.30 in un benzinaio alle porte della capitale ma noi non saremmo mai arrivati in tempo.
Il mio compagno riparte a tutta velocità e riusciamo a raggiungere Antananarivo in tempo record ma alle porte della città c’è una rotonda (il primo bivio che troviamo lungo tutto il tragitto percorso) che ci manda fuori strada. Ci siamo persi. E non potete capire cosa significa perdersi in una città di quattro milioni di abitanti. La gente è riversata per strada e ormai sta calando il sole. Mahefa al telefono cerca di spiegarci come raggiungerlo e dopo un po’ di tentativi e alcune richieste ai vigili non andate a buon fine ci troviamo davanti al Carlston Hotel, un palazzone altissimo che assomiglia al nostro Pirellone milanese. La cosa più intelligente è fermarci e farci raggiungere da Mahefa. Ci accostiamo al bordo della strada e aspettiamo. Sono ormai le 17.30 e noi siamo davvero in ritardo ma finalmente lui arriva, gli lasciamo la guida e partiamo alla volta dell’aeroporto con una brutta notizia: Mahefa ci dice che possiamo impiegarci anche due ore. Purtroppo ci troviamo imbottigliati nel traffico fermi su tre corsie fino a che, a passo d’uomo, riusciamo ad uscire dalla confusione del centro città e immetterci sulla strada che porta all’aeroporto che dista circa 12 km e dove ci aspetta una lunga fila di macchine. Mahefa, preso da un’incontenibile vena eroica si butta nella corsia opposta e comincia a viaggiare contromano e rientrare appena vede una macchina che arriva, prendendosi tutti i clacson e le maledizioni degli altri autisti in coda. Grazie alla prontezza e alle gesta (illegali, lo sappiamo) della nostra guida, arriviamo finalmente alle 19.30 all’aeroporto. Per fortuna c’era ancora la fila per il check-in e noi siamo arrivati giusto in tempo. Compriamo le stecche di sigarette che costavano solo quindici Euro e saliamo sull’aereo dove finalmente riusciamo a dormire.
13 giorno 3 dicembre
Arriviamo all’aeroporto di Parigi alle 6 di mattina, facciamo colazione e aspettiamo il volo dell’Alitalia per tornare a Roma. Nell’attesa facciamo amicizia con Carlotta, una ragazza romana che avevamo già notato all’aeroporto di Antananarivo e che abbiamo poi scoperto essere italiana solo al gate dello scalo. Carlotta aveva passato gli ultimi mesi nell’Ile di Sainte Marie, in Madagascar, a lavorare in un hotel e ci raccontiamo le rispettive esperienze. Poi ci accorgiamo che in fila, per salire sul nostro aereo c’era Balzaretti, il calciatore!
Arrivati a Fiumicino siamo stanchi morti, e ridiamo del fatto di essere stati in vacanza ed essere tornati più stanchi di quando siamo partiti ma nonostante la debolezza e la voglia di tornare a casa per poter dormire nel nostro letto e non doversi più svegliare la mattina alle sei, siamo felici. Siamo felici di aver finalmente scoperto un mondo diverso dal nostro, di aver riscoperto certi valori a cui non siamo più abituati e di aver conosciuto tante persone interessanti. Vorremmo dormire e risvegliarci ancora ad Anakao su quella spiaggia piena di Piroghe. Ora capiamo perché si chiama Mal d’Africa.
Poi torniamo a casa a Grosseto, mi faccio una doccia veloce e mi preparo per uscire per un impegno lavorativo che avevo in calendario da prima di partire. Esco che è già buio e rimango abbagliata dalle luci delle case, dai fari delle auto e dai lampioni e mi rendo conto che in Madagascar mi ero abituata al buio.