di Barbara Farnetani
ROCCATEDERIGHI – Quella del campo di internamento di Roccatederighi è una ferita ancora aperta, rimossa a lungo e che è riaffiorata solo da alcuni anni, oggi attuale più che mai visto che quest’anno sono 70 anni dalla sua chiusura. Il campo restò aperto solo per alcuni mesi, dal 28 novembre del 1943 al 9 giugno del ’44, sufficienti per spedire nei campi 39 degli 80 ebrei che vi transitarono. A pagare il prezzo più alto gli ebrei stranieri, soli e senza la rete di rapporti e conoscenze che avevano gli italiani, non trovarono nessuno a difenderli. Diversa la sorte degli ebrei grossetani, saldamente inseriti nel tessuto sociale della Maremma, trovarono più di un occhio disposto a chiudersi, non solo quelli delle guardie che sorvegliavano il campo o dei carabinieri che li cercarono “per finta” ma anche quelli del Vescono Galeazzi e persino del direttore del campo che compilava le liste per le deportazioni a Fossoli, vicino Carpi, Modena, e da qui nei campi di Auschwitz, Mauthausen, Bergen Belsen.
Quella del campo di Roccatederighi è una storia di solerzia fascista, quella dell’allora capo della provincia Alceo Ercolani, che, di sua iniziativa, allestì il campo anticipando ogni richiesta del ministero. Ercolani iniziò la sua opera di pulizia etnica congelando e requisendo aziende agricole (5 per un’estensione di 13.000 ettari), attività, e infine le abitazioni dei pochi ebrei maremmani (il censimento del ’38 ne contava 143, 68 dei quali a Pitigliano), e si concluse con l’apertura del campo. Il tutto anticipato da una feroce e aggressiva campagna di stampa contro gli ebrei, che erano parte della comunità locale, proprio per sviluppare un sentimento razzista sino allora inesistente. «Ad un certo punto iniziarono a dirci che gli Ebrei erano diversi, che bisognava diffidare di loro – raccontava anni fa Giuseppe Sargentoni, che da bambino viveva tra l’Amiata e le Colline del Fiora – mentre sino a poco tempo prima erano parte della comunità. Non avevano fatto nulla di male».
Nell’ottobre del ’43 iniziano i primi rastrellamenti tedeschi “Il 24 novembre ebbero inizio i lavori per l’installazione di un campo provinciale, in un’ala della sede estiva del Seminario vescovile di Roccatederighi, nel comune di Roccastrada; il 27 avvennero i primi arresti nel territorio provinciale; il 28 il campo cominciò a funzionare. Tutto questo – la complessa messa in movimento della macchina della persecuzione – in anticipo rispetto all’ordine di polizia n.5, del 30 novembre, e senza alcun intervento da parte del Comitato territoriale militare germanico”. Si legge negli scritti della presidente dell’Isgrec Luciana Rocchi. Ovunque emerge la straordinaria solerzia di Ercolani, lo stesso che ordinò la fucilazione degli undici giovani renitenti alla leva di Maiano Lavacchio. Attorno al campo furono disposti “20 militi, armati di mitragliatrici, fucili mitragliatori, ‘un congruo numero di bombe a mano per ogni milite’ ed un reticolato di protezione, sorvegliato notte e giorno, per impedire fughe e comunicazioni. Il tutto per sorvegliare 80 detenuti, tra cui vecchi, donne, bambini, offrendo un’immagine esterna, che ricorda i campi di concentramento del Reich”. Si legge ancora nella ricerca di Luciana Rocchi.
“Un’attenta considerazione merita l’atteggiamento della Chiesa locale – continua Rocchi -. Spesso i parroci, qui come altrove, dettero uno spontaneo sostegno sia agli antifascisti, che a chi sfuggiva all’arruolamento nell’esercito della Repubblica Sociale, che agli ebrei perseguitati. Ma le più alte gerarchie di fronte alle persecuzioni, ai rastrellamenti, alle deportazioni, come sappiamo, tacquero. Fa riflettere l’utilizzo della sede estiva del Seminario Vescovile. Non si trattò di un gesto di brutale requisizione, ma di un accordo stipulato tra il Vescovo di Grosseto ed il capo della Provincia, sancito da un regolare atto di affitto. Il documento che attesta l’accordo riporta l’ammontare del canone d’affitto (5 mila lire), il compenso pattuito per le suore (300 lire) e gli uomini, messi a disposizione per la gestione del campo. Di particolare interesse, su questo tema, è il confronto con la memoria di alcuni tra i superstiti del campo e tra i religiosi, che convissero con gli internati. Tutti ricordano l’assistenza spirituale del Vescovo, che in quel periodo occupava un’altra ala del Seminario, e le cure della sorella, che alleggerivano il peso della detenzione. Nessuno è disposto ad attribuirgli una qualche responsabilità: una memoria selettiva l’ha esclusa ed ha consolidato in loro l’immagine dei gesti di solidarietà. Un punto fermo è che “il vescovo ha salvato la vita ad ebrei grossetani”. In effetti, un dato significativo è quello delle deportazioni. Osservando i due trasferimenti di ebrei da Roccatederighi a Fossoli, preludio alle deportazioni, troviamo nel primo gruppo 9 italiani e 12 stranieri, nel secondo solo 25 stranieri. Nessun ebreo grossetano uscì da Roccatederighi, diretto a Fossoli; i più furono rilasciati per motivi di salute. Si era costituita una rete solidale intorno agli ebrei grossetani, che comprendeva anche alcuni militi, che prestavano servizio all’interno del campo, e lo stesso direttore, Gaetano Rizziello. Erano loro a guidare opportunamente la composizione delle liste.” Di coloro che finirono nei campi solo quattro sopravvissero, ma oltre agli internati e a coloro che furono liberati, ci sono 13 persone che non partirono per la Germania ma che sparirono nel nulla e di cui non si è più saputo nulla.