È un viaggio nello spazio e nel tempo quello che ci propone Giulio Gasperini, un viaggio fisico e letterario nella Danimarca della scrittrice Karen Blixen autrice di una vasta bibliografia dedicata al Kenia, tra cui spicca per notorietà, anche per meriti cinematografici, “La mia Africa”.
La voce di Karen
In Danimarca, a novembre, il sole è basso sull’orizzonte. È tiepido; non scalda. L’aria pare un velo, pallida, come offuscata da un fumo sottile, opacizzata d’antico. C’è una patina d’umidità a posarsi su tutto. Qui il tempo non ha peso, non c’è rumore molesto né fretta di andare.
Qui, a Rungsted, poco lontana da Copenaghen, c’è il secondo paradiso di Karen Blixen; il luogo della sua infanzia, dove cominciò a sognare per sé una prospettiva migliore, più ampia. Dove scoprì quale fosse la sua vera ricchezza. E qui si ritirò, dopo diciassette anni di vita africana, quando la piantagione keniota fallì. Questo è la partenza e l’approdo, l’inizio e il ritorno. La casa che fu sempre casa: la tenuta di Rungstedlund. Era il 1879 quando Wilhelm Dinesen, padre di Karen, comprò questa antica locanda settecentesca per tramutarla in un luogo accogliente per la sua numerosa famiglia.
Il Karen Blixen Museet è distante un chilometro e mezzo dalla stazione di Rungsted, a una trentina di chilometri dalla capitale. Tutt’intorno non c’è un’altura, non una collina. Villette di legno, dalle facciate aggrottate e dalle finestre appuntite, resistono al freddo vento di Danimarca, che spira feroce dalla Svezia, lontana il tiro di un sasso. Le macchine scivolano sull’asfalto e sembrano così silenziose come se avessero i motori spenti. Le biciclette, tante, hanno le loro corsie riservate, dove neppure i pedoni sono tollerati.
Dalla stazione si scende giù, lungo Rungstedvej, verso il mare. Ma a metà strada mi sorprende un bivio: promette un’interessante deviazione. Per andare a Rungstdedlund si può passare anche attraverso il bosco: basta seguire la freccia. È piovuto da poco, la terra è ancora umida e c’è del fango. Ma, sopra, gli alberi sono alti, slanciati, eleganti. Hanno rami lunghi, che si intrecciano stretti e poi sfiorano il suolo. I raggi del sole li indorano: un colore che solo nell’autunno si può avere la fortuna di godere.
Questo è il bosco di Karen. Questi sono gli alberi tra i quali passeggiava, in lontani anni. Oggi gli alberi colorano la terra e scompongono il cielo in tanti frammenti, in tante schegge di pallido azzurro. La terra è tappezzata di foglie, sfinite e scomposte, a intrecciare un tappeto di infinite sfumature. Passeggio tra questi giganti, dove c’è ancora più silenzio. E a un tratto, a sorpresa, sono davanti alla sua tomba.
Una sepoltura semplicissima, di un’eleganza commovente. È una lastra di pietra, ruvida. Sopra, a grandi lettere, il suo nome – Karen – con quel cognome da sposata, da baronessa, che l’ha resa famosa in tutto il mondo, fino a rischiare di vincere il Nobel, nell’anno di Hemingway. Sopra la pietra nuda un mazzo di fiori, a concedere un tocco di colore. Tutt’intorno, la terra, elemento al quale Karen fu sempre affezionata. E poi alberi, a circondarla, quasi un abbraccio della Natura. Pare quasi impossibile che quella donne esile esile, divorata dalla malattia e consumata dalla vita, di cui oramai alla fine non ne rimaneva neanche l’ombra, possa occupare un qualche spazio, nel mondo.
Qui Karen ha deciso di riposare, come se fosse il suo ultimo nido. Proprio come tutti gli uccelli migratori che qui tornano, ogni anno, abitando quelle piccole casette di legno che costellano i tronchi. Gialle arancioni azzurre viola. A tutti era stato concesso un alloggio per quando si fossero trovati qui di passaggio, nella bella stagione. Si dice che fosse lei, Karen, a occuparsi personalmente dei suoi ospiti: fu lei a trasformare il parco di Rungstedlund in una riserva per uccelli, nel 1958. Si batté per questo scopo. Come a dire che qua, tra questi alberi, in queste sue terre, c’era posto per tutti. E nessuno poteva sapere meglio di lei come faccia piacere, prima o poi, trovare un posto da chiamare “casa”.
Il sentiero tra gli alberi si snoda e si sdoppia, si confonde e si ombreggia. E alla fine c’è la casa, la residenza di famiglia: Rungstedlund; una lunga casa che specchia in un piccolo laghetto. E a sinistra, piccolo, un ponticello dipinto di bianco. Qua sopra, mi ricordo, Karen si faceva fotografare, immersa nella Natura che le era così amica, così familiare. Adesso, nella casa della famiglia Dinesen, c’è un museo, tutto dedicato alla grandissima scrittrice. Nella parte sinistra della residenza c’è un ristorante rinomatissimo, dove si mangiano dei deliziosi smørrebrød (un grande crostino, portata tipica danese), e un’esposizione di ricordi e di reliquie. In una stanza si può ammirare una parte dei libri che la scrittrice possedeva, che amava leggere e di cui citava vasti passi nei suoi libri e nelle sue lettere, mentre in un’altra stanza sono state raccolte le edizioni in tutte le lingue del mondo dei libri scritti da lei, sotto tutti i suoi vari pseudonimi utilizzati durante la carriera. Nella sala più grande, tante bacheche a proteggere le ultime reliquie della sua esistenza: la penna, la macchina da scrivere, testi scritti in inglese e danese, pagine di quaderno corrette e ricorrette. L’attenzione di Karen per la letteratura divenne ben altro di una passione: fu una vera e propria vocazione che riabilitò le sue sconfitte, trasformando la creatività nella vita stessa.
La sorpresa più grande è, però, la sua voce: qua, a Rungstedlund, c’è Karen che legge un suo scritto. Un brano che parla di leoni e di altri animali. La voce che esce dalle cuffie è roca, la pronuncia dell’inglese particolare. Divertita, lei legge. Ma legge come se narrasse, come se raccontasse una storia appena sbocciatale in mente, come una moderna Sheherazade che incanta e stordisce, fa perdere la concezione del tempo e sa come modulare la voce per ammaliare ancora di più.